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Piano Regolatore: il caso di Rovereto

Maurizio Tomazzoni

Un Piano Regolatore Generale (PRG), è un organismo assai complesso. Composto da moltissimi tasselli che devono incastrarsi uno con l’altro e che non sono certezze, ma mediazioni e compromessi. Per questo un PRG va giudicato nel suo complesso e non per singoli episodi, anche se alcuni di essi possono essere determinanti.

Alla luce di questa premessa, il caso di Rovereto si presta ad una lettura di confronto fra strumenti urbanistici. Serve per capirne l’evoluzione urbana e gli indirizzi che l’amministrazione comunale ha inteso di volta in volta dare allo sviluppo della città. Perché in gioco non c’è solo l’espansione edilizia o l’edificato esistente, ma lo sviluppo economico, sociale, culturale che una città deve assumere. L’inserimento di un’industria o di un museo, tanto per fare degli esempi, possono condizionare sensibilmente il futuro della città , la sua forma, il suo indotto, ecc.

Quando nel 1985, la Giunta provinciale di Trento metteva la parola fine all’iter del PRG di Rovereto firmato dal prof. Franco Mancuso, si delineò uno strumento urbanistico con obiettivi ben definiti, con pregi e difetti. Come è inevitabile che sia. Il 1985 segnò la fine di un percorso durato circa 5 anni. Tanto è il tempo necessario per stilare un PRG. Tante sono le complessità ed i passaggi burocratici da affrontare. In questo tempo sono maturate tutte o quasi le idee "forti" che oggi caratterizzano la città di Rovereto.

La più evidente è il disegno di un "perimetro". Una sorta di confine entro il quale l’organismo città deve essere racchiuso, per evitare espansioni nelle campagne o sulle colline con effetti disgreganti e di spreco di territorio. Fu cioè posto l’accento sulla necessaria "densificazione" della città, come ha giustamente intuito Questotrentino nell’affrontare l’argomento dell’urbanistica di Rovereto, invertendo una tendenza in atto che prevedeva di espandere la città in ogni dove.

La risposta al problema creato dall’eccesso di uso del territorio, e della necessaria densificazione edilizia, ha segnato una svolta nella pratica urbanistica fra gli anni ’70 e ’80. Nasce la consapevolezza del limite fisico all’espansione, del valore del territorio, ma anche la necessità di veder nascere un "effetto città" mutuandolo dalle densità abitative dei centri storici. Un problema aperto che rimanda ad un altro problema: la qualità degli spazi edificati.

Non esiste qualità edilizia senza qualità urbanistica. Non esiste cioè nessun edificio che si possa definire bello in qualunque contesto. Da questa idea, nascono sia i perimetri di lottizzazione delle aree vaste all’interno dei centri abitati, sia i quartieri con sperimentazioni per una diversa densità urbana, quale il quartiere di S. Giorgio, più volte citato e studiato come esempio di insediamento denso ma con spazi di privato e collettivi ben organizzati.

Per l’industria il bell’esperimento del complesso "ex Pirelli", caratterizzato da un recupero con valore di archeologia industriale, ma soprattutto importante per il rilancio delle aziende trentine e non solo roveretane. Nasce di fatto un "polo tecnologico", con la Tecnofin prima, Tecnofin Strutture poi, oggi in sinergia coi laboratori dell’Università di Trento.

In nuce c’era anche l’idea del MART, il grande museo d’arte del Trentino inaugurato da pochi mesi, che da solo è in grado mutare l’indirizzo socio-economico di una città. Un progetto culturale in risposta alla crisi dell’industria, motore propulsivo per una diversa, innovativa, qualità dell’offerta e della formazione.

Oltre a questo, una serie di elementi riguardanti gli edifici storici ed il perimetro del centro da tutelare, caratterizzano il piano del 1985, tanto da poter affermare che questa data rappresenta una svolta significativa nella storia urbana di Rovereto.

Ci sono anche elementi che si possono definire di debolezza in questa pianificazione. Oltre ai tanti perimetri delle aree da lottizzare, poco attenti alle esigenze del pubblico che delegano ad una progettazione successiva il tema della qualità, c’è una viabilità che circonda eccessivamente la città. Una sorta di cintura di circonvallazione che si estende sulle zone collinari a ridosso del centro storico, inadatte ad ospitare tale carico viabilistico. Ci sono poi rigidità nelle aree agricole o boscate, che limitano in certo qual modo l’utilizzo del territorio.

Il PRG del 2002, firmato dal prof. Pierluigi Cervellati, ribadisce alcune idee "forti" del PRG precedente. Gli intendimenti iniziali, peraltro, sono ottimi: riprendendo la stessa idea di città, si esaminano tutte le aree dismesse dalle industrie o inutilizzate che si trovano nel centro abitato. L’intendimento è corretto, perché è proprio nel momento in cui si fa una riflessione complessiva sulla città che possono emergere le necessità. Le aree più significative, vengono legate ad una progettazione particolare con lo scopo di indirizzare entro questi vuoti urbani ciò che la città esprime in termini di esigenze o servizi: vengono banditi 8 concorsi di idee per aree definite strategiche per la città.

Fin qui tutto bene, se il PRG del 2002 venisse inteso come una evoluzione di quello dell’85. Peccato che questa volontà, che peraltro è evidente confrontando i due piani, non viene mai presa in considerazione nella relazione al piano. Che anzi richiama solo il vecchio piano datato ai primi del ‘900 (piano Meyreder), facendo intendere che tutto quanto è stato prodotto dopo non è degno di nota. Le analisi storiche sono approfondite e accurate. Ma non trovano applicazione pratica, finendo per allargare a dismisura il centro storico della città, che diventa più esteso di quello di Trento, introducendo vincoli legati alla tipologia e non ai singoli edifici, vincoli che vengono poi cambiati in blocco fra la prima e la seconda adozione del piano.

Infine anche le 8 aree a concorso vengono stravolte fra osservazioni e adattamenti, e di nessuno dei progetti vincitori rimane traccia. Rimangono invece insoluti i problemi delle ricadute degli eventi più significativi per la città: l’Università, che cerca sedi per aule e servizi connessi, e il MART, che richiede una politica degli alloggi e dell’offerta turistica di cui non si vede traccia.

Anche la viabilità non trova soluzione. Il piano 2002, dopo lunga discussione, rinuncia a risolvere questo problema demandandolo a futuri strumenti urbanistici di variante.

E allora la domanda è: se non è un nuovo PRG a risolvere i problemi aperti, per fare quello che si è fatto, non bastava una variante parziale allo strumento già in vigore? In questo caso sì, con un grande risparmio di energie e risorse.