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“Delitto d’autore”

Pablo Echaurren, Delitto d’autore, Shake, Milano, 2003, pp. 213, € 13.

Un affermato critico d’arte, Cesare Marullo, viene trovato barbaramente ucciso nel proprio appartamento. Primo tra i sospettati Miguel Latour, squattrinato artista con poca voglia di scendere a compromessi. Il caso è affidato al lesbocommissario Vanessa Tullera, che insieme con un collaboratore poco avvezzo all’arte contemporanea si avventurerà in un’intricata matassa fatta di artisti arrivisti e galleristi cialtroni, teleimbonitori mitizzati e mitomani monomaniaci.

"Delitto d’autore", scritto dalla fantasiosa mente di Pablo Echaurren, artista pluridisciplinare e sperimentatore del quale ci siamo occupati in uno degli scorsi numeri, è, a prima vista, un giallo come tanti altri, con tutte le maschere del caso, dall’assassinato all’assassino, dal presunto colpevole all’insospettabile complice, passando per forze dell’ordine e del disordine che immancabilmente complicano le cose, dilatando il plot narrativo in direzioni mai scontate. Su questo canovaccio Echaurren, con la sua verve di sperimentatore linguistico, pescando ora dalla parolibera futurista, ora dall’immediatezza dei comics, tesse le caricature, i casi limite (ma forse non tanto limite!) delle figure che costituiscono, tramite una fitta e spesso occulta rete di rapporti e relazioni, il sistema dell’arte: artisti, galleristi, critici, musei e collezionisti, tanto che nell’insieme il romanzo può assumere la valenza di un saggio - forse un po’ di parte - sull’attuale mondo dell’arte, in una maniera franca e senza peli sulla lingua che ricorda certi scritti di Enrico Baj.

Della trama non aggiungiamo altro, perché il nostro vuole essere un invito alla lettura, e non un surrogato. Due parole invece sui temi e le figure toccate dall’autore, a cominciare da certe derive immaginative prese da certa arte contemporanea. Il gruppo di artisti che è protagonista nel romanzo appartiene al movimento della Peristalsi, che ha come materia "poetica" le feci: chi crea con esse sculture, chi crea macchinari digestivi che le producono autonomamente, chi le sintetizza in fiale, chi si fa clisteri di colori e poi, alla maniera di un Pollock, effettua il suo dripping…; con un evidente richiamo a Manzoni, che negli anni Sessanta vendeva le proprie, inscatolate, a peso d’oro. Ma ad una provocazione neodada - per altro contro lo stesso sistema dell’arte - qui, con l’avvallo di critici parolai e galleristi compiacenti, si vuol dare giustificazione poetica, artistica, creativa, tanto da fondare un movimento di settore: insomma, dalla merda d’artista all’artista di merda, egocentrico ed esaltato, avidus dollarus come il peggior Dalì, senza ovviamente la perizia tecnica di quest’ultimo. Se a partire da Duchamp tutto è arte, allora il gioco è semplice, basta inventarsi qualcosa, poniamo la pittura su foglie di giardini pubblici o quella su neve, far romanzare la cosa da qualche critico affermato, esporre in qualche galleria alla moda pagando spese e cocktail d’inaugurazione ed il gioco è fatto, limitato ad un modesto giro di conoscenze e ad un discreto investimento iniziale.

Nel romanzo viene smitizzata anche la figura del critico, affiancato all’artista ma spesso in concorrenza con esso; Cesare Marullo, vittima sacrificale del romanzo, è un critico che si ritiene più artista dell’artista stesso (un riferimento a Bonito Oliva?), avendo nelle sue mani le sorti di quest’ultimo. Né più positiva esce la figura del gallerista, niente affatto lungimirante verso le nuove generazioni, quanto piuttosto - al pari del critico - venditore a caro prezzo di possibili successi, pronto a truffare l’artista ogni qualvolta se ne presenti l’occasione. Più in controcampo, ma altrettanto macchiettistiche, le figure dei televenditori d’opere d’arte, sostituendo ai quali le opere con degli aspirapolveri saremmo sicuri di non notare alcuna differenza elogiativa ed espressiva. Il collezionista, infine, appare come il pesce che abbocca sempre agli ami dei nomi, gettati copiosamente, come abbiamo visto, da critici e venditori; è colui che, assieme all’artista ma in maniera diversa, paga il biglietto della giostra dell’arte.

Le situazioni surreali che si avvicendano nel romanzo non sono poi così distanti da certa realtà, e se non sono le feci sarà il sangue od altro liquame corporale a diventar oggetto poetico.

Arte? Non arte? Critica all’arte? Chissà. Alla storia l’ardua sentenza, e speriamo che essa si tenga lontana dal mondo descritto così ironicamente da Pablo Echaurren.

* * *

Se non lo trovate in libreria, potete richiedere il romanzo di Echaurren a: www.shake.it

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