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QT n. 18, 25 ottobre 2003 Servizi

“Pragmatici” e “vocazionali”

Con il dott. Ivano Bison, docente di Statistica e Metodologia e tecniche della ricerca sociale a Sociologia e curatore della ricerca di cui parliamo, cerchiamo di rilevare le differenze fra i due diversi profili di studenti evidenziati nel suo studio: i “pragmatici” e i “vocazionali”. “Ridotto il problema all’osso, all’atto dell’iscrizione, come poi nel corso degli studi, lo studente è soggetto a due spinte: 1. cosa mi piacerebbe studiare? 2. Dove trovo lavoro?

Di qui la scelta vocazionale, la prima; e quella pragmatica, la seconda. La prima esprime l’aspirazione all’auto-realizzazione personale attraverso gli studi universitari e l’orientamento ad una data materia. La seconda invece esprime la componente ‘funzionale’ o ‘utilitaristica’ della scelta, con i diversi gradi di attenzione verso il futuro e le opportunità che la laurea può offrire nell’inserimento nel mercato del lavoro e nel raggiungimento del successo professionale. A ognuna di queste due dimensioni ogni studente attribuisce un peso diverso. Se privilegia la dimensione vocazionale, lo studente si indirizzerà verso i corsi di studio di Lettere, Sociologia e Scienze, mentre se privilegia la dimensione pragmatica il nostro studente si indirizzerà verso i corsi di studio di Economia, Giurisprudenza ed Ingegneria”.

La recente riforma, che con le lauree triennali ha introdotto anche un assillo nei tempi in cui lo studente deve laurearsi, non scoraggia la vocazionalità, l’approfondimento? “Il fine dovrebbe essere unire pragmatismo e vocazionalità: formare persone che, grazie alla propria capacità culturale, sappiano adattarsi al mutare delle competenze richieste da un mercato sempre in evoluzione; sempre più di frequente anche in Italia si inizia a parlare di ‘formazione permanente’ che in sintesi altro non vuol dire che ad ogni individuo sarà richiesto sempre più frequentemente di ‘ritornare a scuola’ ad aggiornarsi. La riforma ha raggiunto indubbi risultati positivi: ha aumentato la tendenza all’iscrizione, e ha contemporaneamente ridotto gli abbandoni al primo anno (a Trento siamo passati dal 30% di abbandoni al 10%). Riducendo i tempi dell’università (per il conseguimento di una laurea di primo livello siamo passati dai quattro anni di prima ai tre anni di oggi), l’ha resa più appetibile. Poi, è vero, ci sono problemi: cosa ovvia di fronte ad un profondo cambiamento in una struttura che era ferma da decenni”.