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“Kill Bill I”: Propp Fiction

Lo stratificarsi di citazioni e l'ironia fanno grande il film di Quentin Tarantino, che altrimenti sarebbe piccolo, anzi piccolissimo.

Se non fosse per qualche schizzo di sangue di troppo, "Kill Bill I" potrebbe essere mostrato ai ragazzi delle medie per illustrare "La morfologia della fiaba", il libro di Propp, tutta quella codificazione dei personaggi e dello sviluppo di una fiaba e di molte altre narrazioni: l’attante, l’opponente, lo strumento magico, l’aiutante, il viaggio, la prova... La trama di "Kill Bill I" è di una linearità elementare, quasi didattica, appunto: una donna subisce un torto e vuole vendicarsi.

Il film, che è un film unico della durata di quattro ore, sarà mostrato invece in due capitoli. Di fronte al probabile aut aut dei produttori (tagliare un’ora abbondante o dividere il film in due) Quentin Tarantino deve aver optato senza troppi dubbi per la seconda soluzione. La lavorazione è stata lunga e sofferta, e Tarantino ha finito per innamorarsi - come qualcuno gli rimprovera - di ciascuna delle sue inquadrature. Tagliare un’ora gli sarebbe stato impossibile. Ma lo sviluppo lineare della trama rende ancora più fastidiosa questa interruzione, visto che per il secondo capitolo, che potrebbe benissimo sorprenderci e contraddirsi, dovremo attendere fino al febbraio del 2004.

Intanto, "Kill Bill I" è diviso in due parti, una ambientata nel Sud degli Stati Uniti, una in Giappone. Quentin Tarantino, nella parte americana, fa a tutti gli effetti il Tarantino: inquadrature ricercate, gusto dei dettagli, humour nero. In questa prima parte, si sente tuttavia la mancanza di quelle doti di sceneggiatore che hanno reso così popolare il suo cinema: i dialoghi che sono geniali discussioni filosofiche sul nulla - il significato della canzone di Madonna "Like a Virgin", gli hamburger di Amsterdam, l’obbligatorietà della mancia ai camerieri…

E’ però più interessante concentrarsi sulla seconda parte del film, quella in cui Tarantino si nasconde e allo stesso tempo si auto-gratifica immergendosi nel genere, inteso come fiaba (Propp) e come mitologia. I film di genere sono quelli che Tarantino, da spettatore onnivoro, ama di più. Lo si percepisce chiaramente in questo film: la sua passione per il genere - per i generi cinematografici, ovviamente mescolati all’infinito - arriva addirittura a mangiarsi il suo stesso film. A Tarantino va riconosciuto questo grosso merito: saper riconoscere in modo preciso quanto lui, come autore, sia solo l’ultimo di una lunga fila. Proprio il regista di "Pulp Fiction", che al suo secondo film è stato eletto a genio cinematografico degli anni Novanta, si comporta come un santo che vuole annullarsi di fronte alla divinità. Questo, oltre a essere una manifestazione di "umiltà" - per quanto filtrata e per quanto la si possa pretendere dauno che sa di essere il primo della classe - ci fa percepire il peso della suggestione della cultura giapponese cui Tarantino tributa omaggio. In particolare, la cultura dei samurai e, diretta conseguenza, quella della yakuza, in cui il sottoposto sa di essere sottoposto e di dover comunque rispetto a qualcosa che gli è superiore, senza troppe domande: una parte non può in nessun caso discutere il tutto.

Tante cose del film potrebbero lasciar perplessi, proprio a causa di questo annullamento. E’ come se Ulisse, il grande esploratore, si fosse alla fine lasciato ammaliare dalle sirene. Fatalmente, Tarantino finisce per schiantarsi volentieri sugli scogli del genere, per cadere negli amati stereotipi che il cinema ha già costruito prima di lui e per lui. Perché non c’è proprio verso di rivitalizzare la sfida "uno contro tutti", quando il nostro eroe (in questo caso, eroina) si trova circondato da decine e decine di nemici e li sconfigge tutti.

Tarantino, diversamente dai senza ironia di "The Matrix", sa che questo stereotipo di scena d’azione ha già dato tutto quel che poteva dare. E però è come se volesse cavare, quasi letteralmente, l’ultimo sangue rimasto alla rapa: alla fine è lui il primo ad ammettere che non c’è più nulla da spremere, e gira la scena più cruenta in bianco e nero, eliminando il rosso.

Questa coscienza di chi è venuto prima di lui, questo incontro/scontro con i modelli, è quello che ha fatto del cinema di Tarantino il tardivo prototipo del cinema post-moderno, rassegnato a dover sempre confrontarsi e superare quello che c’è già stato. Come il Pierre Menard del racconto di Borges, geniale inventore-copione di parole altrui. La grandezza di un autore sta anche in questo, citare e continuare a citare il passato, ma mettendola giù così: come se tutto il passato non avesse fatto altro, per millenni, che scrivere per te. E alla fine si è costretti ad ammettere che tutto questo stratificarsi e macinare di narrazioni nella testa produce una morfologia, e non c’è verso di scamparci. E’ proprio questa consapevolezza di dover fare i conti con tutto quello che c’era prima a fare grande "Kill Bill I", che, di suo, sarebbe invece un film piccolo, piccolissimo.