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“Dogville”

Compiaciuta prova di bravura di Lars Von Trier: oltre Brecht e lo straniamento, un eccesso di teorizzazioni. E di lucidità: in un autore che vuole far piangere il pubblico rappresentando sentimenti che non lo coinvolgono.

La teorizzazione di Lars Von Trier è come al solito molto lucida: grado zero della rappresentazione per parlare di sentimenti. In "Dogville" non esiste scenografia, tutto il film è girato dentro un teatro di posa privato di ogni riferimento realistico: dei semplici tratti di gesso segnano le pareti delle case. La storia è la classica vicenda alla Von Trier, di sofferenza femminile.

Ma partiamo dallo stile, dall’hangar buio, da questa radicale scelta di regia. Evidentemente, con l’operazione Dogville, il regista danese ha voluto porsi di fronte a un nuova prova di bravura.

Due passi indietro. Von Trier è l’inventore di "Dogma 95", quella serie di comandamenti drastici e rigorosi che regolamentano un modo diverso di fare cinema: niente luci artificiali, camera a mano, musiche solo diegetiche, eccetera eccetera. Questa gabbia stilistica, lucida e ben concepita, è riuscita ad essere effettivamente svecchiante: innovativa, attraverso lo stile, anche dei contenuti.

A Venezia, quest’anno, Von Trier ha co-firmato un film, "Five Obstructions", in cui lui, produttore, poneva una serie di lacci tecnici a un amico regista incaricato di girare vari remake di un proprio cortometraggio. Alcuni critici hanno letto il film come una geniale riflessione sui limiti del cinema, sulle dinamiche delle Major, sul rapporto servo-padrone; altri ci hanno visto solo la nuova impresa autoerotica di un regista che si fa bello della sua fama di sadico.

L’hangar di "Dogville" è, appunto, l’ennesima sfida tecnico-cinematografica che il regista si è voluto imporre: la sfida di riuscire a spremere sofferenza dal pubblico anche costringendosi dentro un’opzione brechtiana che dovrebbe allontanare dalla storia, impedire l’identificazione con i personaggi, calmierare il dolore. E’ qui che il discorso, per Von Trier, si fa gratificante: vuole dimostrare di essere più forte della teatralizzazione del cinema, di superare Brecht e il suo straniamento. Ancora una volta le costrizioni che egli stesso si è dato lo obbligano a dimostrare (a sé e al mondo) di saper condurre dove vuole lui i sentimenti del pubblico, contro ogni ostacolo.

Il problema, con Lars Von Trier, è proprio questo:
l’eccesso di teorizzazioni e di lucidità. Se si vuo-
le parlare di sentimenti, sarebbe bene che in qualche maniera da quei sentimenti ci si lasciasse minimamente coinvolgere. Altrimenti, si finisce solo per giocare al grande demiurgo che sa dosare le sofferenze per far piangere coi tempi esatti il pubblico pagante. Alla fine di tutta questa - letterale - messa in scena, resta solo la furbizia di un’operazione studiata a tavolino. Proprio mentre guarda a Brecht, Von Trier si dirige esattamente nella direzione opposta. In Brecht, lo straniamento consentiva di allontanare lo spettatore dall’emotività della storia per fargli assumere un punto di vista critico sui rapporti fra i personaggi; per Von Trier, il finto allontanamento è quel che si diceva: un mezzuccio tecnico per permettergli un saggio di bravura stilistica e di astuzia autoreferenziale.

Per dirne un’altra: come esce da tutta questa costruzione il bersaglio-America contro cui Von Trier punta le sue frecce? L’America, nel complesso, ne esce immacolata: sul campo neutro di quell’hangar, degli Stati Uniti si riconoscono solo gli stereotipi. Le frecce danesi puntate contro quell’oggetto di odio/amore arrivano al bersaglio spuntate, e arrivano spuntate proprio per queste scelte di regia, capaci addirittura di rendere apolitico Brecht.

Il gioco di Von Trier, dunque, mostra la corda. La sua volontà di far male a tutti i costi - se riesce a superare l’ostacolo pratico della messa in scena - non riesce comunque a raggiungere il cuore di chi guarda. Von Trier, partendo da Brecht, è arrivato a Maria De Filippi: paradossalmente, in tutto il suo intellettualismo, "Dogville" fa venire in mente né più né meno che tanta televisione del dolore, che ormai ha reso cinico e disincantato anche il teleutente più incline alle lacrime.

Lo spettatore che ha visto "Le onde del destino" o "Dancer in the dark" va al cinema corazzato: dopo l’impiccagione di Bjork, è tutto un tranquillo scollinare. Se, di nuovo, in "Dogville" il gusto della storia sta nello scatenare le forze della cattiveria umana contro una singola donna, qui le vessazioni varie che subisce Nicole Kidman non fanno altro che stuzzicare l’appetito, in vista quanto meno di un qualcosa tipo l’impiccagione. E questo cinismo indotto rende inefficace lo sforzo virtuoso della cine-sofferenza.

Per il cinema di Von Trier torna perfetta una definizione di Alberto Savinio: "Molti artisti si dedicano con uno zelo e una perseveranza degni di miglior causa alla rappresentazione e all’espressione del dolore, convinti che in questo modo fanno opera profonda. Molti infine portano il dolorismo al confine della iettatura…".

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