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QT n. 21, 11 dicembre 2004 Monitor

“Eros”

Film a tre episodi: Steven Soderbergh e Wong Kar-Wai ne firmano due, come omaggio a Michelangelo Antonioni, autore del terzo. Purtroppo l'episodio di Antonioni è deludente e l'insieme non convince.

"Eros" è un film composto di tre episodi: il primo si intitola "Il filo pericoloso delle cose" ed è un cortometraggio (30’) del 2001 di Michelangelo Antonioni; il secondo, "Equilibrium" (35’), è opera dell’atipico regista americano Steven Soderbergh; il terzo (39’), diretto dal regista di Hong Kong Wong Kar-Wai, si intitola "La mano". Il senso dell’operazione complessiva sta tutto nell’episodio di Antonioni, per dar forza al quale sono stati chiamati due registi di nome, incaricati di "omaggiare" il maestro ferrarese ragionando sul tema dell’eros. Purtroppo, però, l’episodio di Antonioni delude.

Durante il festival di Venezia, in un bagno del Casino, abbiamo sentito un giovane critico affermare: "In confronto a ‘Eros’, ‘Al di là delle nuvole’ è ‘L’avventura’". Tradotto dal cinefilese: paragonato a questo episodio di "Eros", un "brutto" film recente di Michelangelo Antonioni ("Al di là delle nuvole", 1995) sembra uno dei suoi capolavori ("L’avventura", 1960). Detto questo, non sarà certo un malriuscito film di mezz’ora a cambiare il giudizio storico-critico su uno dei grandi registi del Novecento.

Lo sguardo di Antonioni, peraltro, ne "Il filo pericoloso delle cose" si ritrova tutto: le sue inquadrature - pur poco funzionali alla narrazione - sono da guardare per quello che restituiscono dell’enorme eleganza stilistica del regista. Al film, però, manca tutto il resto: il corto/mediometraggio non riesce nemmeno ad arrivare al livello di estetismo astratto, già sufficiente a rendere interessante la pellicola, che raggiungeva proprio "Al di là delle nuvole", anch’esso a episodi.

Bisogna chiamare in causa a questo punto il poeta e sceneggiatore Tonino Guerra, co-autore dei dialoghi di quasi tutti i film di Antonioni. Nell’episodio di "Eros", i dialoghi non si riescono proprio ad ascoltare. Tonino Guerra si ostina a non voler tener conto della differenza che passa tra la parola stampata e il linguaggio orale. I suoi dialoghi sono lontani il più possibile dai toni normali delle quotidiane conversazioni: sono verbosi, inutilmente filosofici, allo stesso tempo scarni e eccessivi. Per funzionare in relazione al film, il contributo di Tonino Guerra (collaboratore di Antonioni, ma anche di Andrej Tarkovskij, Theo Anghelopulos e tanti altri) deve essere calmierato dalla potenza delle immagini pure (i grandi film di Antonioni) o fatto esplodere da qualche personalità ancora più barocca, esuberante e autoritaria (Fellini, "Amarcord"). Altrimenti, ci pare che il suo apporto alle sceneggiature si configuri decisamente più sotto forma di croce che di delizia. Se "Al di là delle nuvole" era ferito ma non mortalmente da dialoghi così sterili, "Il filo pericoloso delle cose" ne è ucciso. L’episodio non trova riparo nemmeno nella dignità di un soggetto con un qualche nucleo di interesse, visto che la trama è fatta di belle case e inutili crisi di coppia.

In sé gli episodi di Steven Soderbergh e Wong Kar-Wai sono certamente più riusciti. La trilogia nel suo insieme risulta tuttavia disomogenea, un’operazione di maniera, priva di un senso che vada oltre l’idea concepita a tavolino.

L’episodio più vicino allo spirito di Antonioni, e più fedele all’idea di base di raccontare l’eros attraverso un’estetica dello sguardo, è il terzo, "La mano", diretto da Wong Kar-Wai. Il regista di Hong Kong racconta la storia del rapporto di fiducia e di dipendenza reciproca che si crea tra una prostituta d’alto bordo e il suo sarto personale. Questo episodio costituisce fra l’altro la messa in scrittura di un tema, quello degli abiti e dell’abbigliamento, che non solo ha un grosso peso negli ultimi lungometraggi di Wong Kar-Wai ("In the Mood for Love" e "2046"), ma ha anche un’importanza centrale in tutto il cinema di Antonioni (basti ricordare "La signora senza camelie", 1953, o "Blow Up", 1966). Con questo episodio Wong Kar-Wai riesce quindi a combinare elegantemente una sua ossessione personale con un omaggio all’opera del regista italiano.

In "La mano", la creazione dell’eros passa prima di tutto attraverso l’abbigliamento, inteso come rituale di difesa della nudità del proprio corpo. Come scrive Roland Barthes in un saggio sullo streap-tease, "la piuma, la pelliccia e il guanto continuano a impregnare la donna della loro magica virtù anche una volta tolti, le costituiscono come il ricordo avvolgente di un lussuoso guscio, perché è una legge evidente che tutto lo streap-tease è presente nella natura stessa dell’abbigliamento iniziale". Per Barthes, questo abbigliamento ritualizzato avvolge le spogliarelliste in un "agio miracoloso che le veste perennemente". E’ proprio la magia di questo guscio protettivo costituito dall’abbigliamento a rendere così importanti gli abiti per la prostituta interpretata da Gong Li.

"Equilibrium", l’episodio di mezzo di Steven Soderbergh, è piuttosto riuscito e divertente. E’ la storiella di un pubblicitario che racconta allo psicanalista un sogno ricorrente. Va detto però che l’idea di Soderbergh non è valorizzata, impacchettata com’è in mezzo a due mediometraggi così estetizzanti e autoriali.

In conclusione, alla domanda "Cos’è l’eros?", Antonioni dà purtroppo una risposta banale ("Corpi nudi che danzano"), mentre Soderbergh prende sul ridere questa domanda impossibile. E’ dal pezzo di bravura di Wong Kar-Wai che portiamo a casa le riflessioni più complesse e suggestive. Forse anche perché è l’unico dei tre registi a mettere al centro della riflessione sull’erotismo la dialettica tra un uomo e una donna, evitando di esprimere solo un punto di vista, cioè quello maschile.

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