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QT n. 10, 21 maggio 2005 Monitor

Il futuro anteriore di Abate al castello di Pergine

Di notevole impatto la personale di Romano Abate: opere visionarie, frutto di lavoro indefesso sulla materia (povera), a fondere arcaicità e scorie della modernità.

Se guardiamo a ciò che usa per realizzarle, ma anche a ciò che vogliono esprimere, le sculture
di Romano Abate - esposte fuori e dentro il castello di Pergine fino al 6 novembre - sembrano il prodotto visionario di un archeo-antropologo che, in un futuro nemmeno troppo lontano, si giri ad osservare gli effetti del frenetico sviluppo tecnologico nel quale oggi siamo immersi. Nel loro mettere insieme elementi di arcaicità e scorie della società contemporanea, non sono necessariamente un grido apocalittico contro la modernità, ma forse un modo di ridimensionarne la portata, di esorcizzarne anche le conseguenze più nefaste, commisurandola alle lunghe radici della storia e della cultura. E con ciò, anche un modo di restituire la creatività all’energia dell’uomo, alle sue facoltà ideative e manuali.

Un po’ come negli scenari di certe narrazioni - anche cinematografiche - di qualche anno fa, in cui si immaginavano i pochi superstiti di un mondo devastato da qualche immane catastrofe ricreare gli strumenti di sopravvivenza assemblando relitti postmoderni con tecniche e sostanze primordiali, anche le sculture di Abate si servono di diverse e contrastanti materie, senza che ciò conduca ad esiti incoerenti od eclettici. Abate è uno scultore del legno molto abile - lo si vede bene in certi elementi del tutto affidati alla sua manualità - e il legno costituisce quasi sempre la materia principe dell’opera. La sorpresa nasce quando ti accorgi che in certe parti di un corpo o di un arcano apparato affiorano fasci di tubicini, nervature di metallo, intrusioni di piombo. Un lavorio indefesso sulla materia, con innesti, consociazioni, saldature, legature, colature, bruciature, via via fino alla levigatura: è tutta una esaltazione dell’azione instancabile del "faber", per fondere e amalgamare materiali - e oggetti trovati - in un organismo che risponde ad una precisa idea, ad una forma poetica, dove la natura dei componenti spesso non è evidente al primo sguardo e si rivela via via che indugi ad osservare. Il senso di meraviglia che suscitano queste opere non è quindi solo dovuto alla loro presenza eclatante, talvolta quasi eccessiva, ma anche a questo modo di operare nel dettaglio. Si tratta di una personale molto ampia e impegnativa - circa 35 opere, diverse di grandi dimensioni - che, raccogliendo lavori realizzati in vent’anni ma anche creando interventi ad hoc, cerca di rapportarsi in modo attento agli spazi e all’atmosfera del castello.

"Trappola eolia per un dio scomparso" è, da questo punto di vista, un esempio particolarmente immaginifico, con le due trombe di legno che si snodano per decine di metri sul fianco del colle, strumento musicale abbandonato da giganti o forse specie botanica, fiabesca e mitica. Un’analoga deriva fantastica riscontriamo in una stele di legno a cuspide, che si erge solitaria come qualcosa a metà tra un menhir e un capitello, invaso da enormi scarafaggi verdi (solo dopo notiamo il riciclo del fasciame di una barca e di abbeveratoi per mucche).

Ma di notevole impatto è anche "Il burkah di Dafne", inquietante sarcofago alto dieci metri, accostato in verticale ad una torre delle mura, dal quale emerge e si dischiude una donna-crisalide. Chiaro esempio sia del tema della metamorfosi, che è fondamentale chiave di lettura dell’opera di Abate, sia della sua propensione a pensare il lavoro dell’artista anche come gesto di provocazione, messa in discussione, "intervento" sulla realtà di oggi.

In questa linea si muovono altre opere collocate negli esterni del castello. "Navigare in Adriatico" è un’installazione complessa che allude - con quei grandi pesci morti di legno e di piombo e quella specie di altare di vasche di ferro eretto allo schermo TV - alla tragedia di molti albanesi che hanno cercato la traversata verso l’Italia.

"Navigare in Internet" è invece una sorta di grande coppa-nido di metallo, in cui una mostruosa figura di volatile sembra covare una miriade di pannelli di circuiti elettronici.

Qua e là emerge qualche eccesso pedagogico, come il telecomando fuso sul bracciolo della poltrona, accanto a quella figura di un crocifisso sdraiato sul pavimento col volto coperto da un arcaico elmo, che dice già molto da sé. Lì dove invece l’immaginazione e la mano di Abate seguono la sua vena grottesca e macabra, escono visioni che insieme sorprendono e allarmano - alla Bosch, suggerisce Franco Batacchi nel suo saggio di presentazione - come la surreale figura in doghe di botte che troviamo, sotto vetro e affiancata dallo scheletro di un cane, nella cantina del castello.