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QT n. 9, 6 maggio 2006 Monitor

Annamaria Gelmi a Castel Pergine

Gli ampi spazi del castello prestati a una personale di grandi opere ad hoc realizzate. XIV edizione affidata all'artista trentina, con il titolo "Fuori luogo comune".

Per ciascuno degli artisti che, di anno in anno (oggi siamo alla quattordicesima edizione) sono chiamati a realizzare una personale a Castel Pergine, relazionarsi con i suoi spazi è una bella sfida. Che si tratti di uno scultore aduso alle grandi dimensioni (vengono in mente tra gli altri Pino Castagna e, nei due anni più recenti, Piera Legnaghi e Romano Abate) o, a maggior ragione, di un artista che raramente si è visto mettere a disposizione un campo d’azione così ampio, il problema e l’opportunità degli spazi del castello vanno comunque al di là dell’ordine di grandezza. La sfida è stata raccolta quest’anno da Annamaria Gelmi, la quale ne ha tratto un percorso ("Fuori luogo comune", visitabile fino al 6 novembre) in cui si intrecciano, o si affiancano, due fili della sua sensibilità che, a ben vedere, riprendono e riassumono certe fasi della sua ricerca trentennale.

Il primo di questi "discorsi" ci viene annunciato già all’esterno della cinta: è un grande fiore, un tulipano rosso, piegato a formare un arco sopra la nostra testa, paradosso di antemurale che insieme contrasta e dialoga col manufatto medievale non solo per forma, colore, materiale, ma per il senso che accoglie e interroga. Lo incontriamo ancora, il fiore rovesciato, sul percorso: appoggiato come arco di controspinta alla possente cinta interna del castello, in un rinnovato gioco di leggerezza levigata e vitale che sfiora il grezzo volume della pietra, forza mentale e immaginifica contro massa chiusa e difensiva. Vero leit motiv, simbolo interrogante, lo vediamo anche più avanti, dove pare prendere l’andamento di un rampicante che ha scavallato da fuori la barriera muraria e si appoggia, quasi sfinito, sul prato interno.

Questa dialettica, in cui cogliamo una vena per certi versi surreale, è forse l’idea più caratterizzante del dialogo con lo spazio e con la simbologia del castello. Il fiore rovesciato torna in altri punti ancora, non più rosso ma nero, ed è esso stesso un simbolo ambivalente, una forza non appassita ma contrastata. Cosa che, nella sala d’entrata, viene ribadita con accenti perfino troppo dichiarati, dove lo incontriamo imprigionato in una gabbia di ferro.

Accanto a questo filo di discorso ne troviamo un altro. E’ un filo collegato in modo più esplicito al tema dell’architettura che è stato lungamente il fulcro della ricerca di Annamaria Gelmi, in quella sua interpretazione affidata non alla "certezza euclidea" ma a una visione affiorante nel ricordo, immagine che alternava brandelli di antiche tipologie costruttive e inserti di cielo. Nel trasferirsi dalla pittura alla scultura, l’interrogazione e il dubbio - sul "senso" del tempo, delle costruzioni umane, della Storia, di cui parlò a suo tempo, nel leggere la sua opera, Luigi Serravalli - si manifestano in modi diversi.

Talvolta vediamo l’artista affascinata dall’idea dell’architettura medievale in cui si trova e proporne una sorta di controcanto razionalista (la nera, geometrica stele intitolata appunto "Torre"); altre volte la vediamo reinterpretare concetti che l’hanno sempre affascinata, come la soglia (il rosso fiore si traduce qui in un grande nastro, metafora del superamento della porta), il labirinto (tante volte frequentato in pittura e qui intelligentemente realizzato in tre dimensioni in un luogo che può essere abbracciato con lo sguardo dall’alto), il perimetro. Oppure, e soprattutto, nelle opere improntate a una visione frontale o bilaterale, di concezione geometrica, dove il contrasto è affidato alle superfici, alla corrosione e ai segni sui piani di ferro grezzo e ossidato accanto al riflesso levigato e freddo dell’acciaio inox. Sono, essi stessi, come gioielli in grande scala (altri ne troveremo, questi davvero portabili, nelle teche del castello).

L’interno, con le sue cupezze, ha fatto uscire in un modo, come si accennava, più drammatico il "retrogusto amaro" (come lo chiama Franco Batacchi, curatore della mostra), fino all’interpretazione estremisticamente funeraria suggerita all’autrice dallo spazio claustrofobico della prigione.

Il linguaggio lineare e astratto, anche quando coinvolge una certa sintesi figurativa, fa di questo appuntamento qualcosa di linguisticamente opposto a quello dello scorso anno (l’impeto del "barocco post-moderno" di Abate), ma certo non appagato dal puro gioco formale.