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QT n. 13, 2 luglio 2005 Servizi

“Hanno ragione: la riforma è da cambiare”

Ci siamo adeguati all’Europa: sforniamo più laureati, in minor tempo, ma la preparazione... La risposta dei prof e le controproposte

Nell’articolo delle pagine precedenti (Università: molto studio, poca riflessione ) abbiamo sentito il parere degli studenti, parere sicuramente di parte su un tema come i tempi di studio; e non è un mistero come i vari movimenti studenteschi si siano sempre arenati, in definitiva, proprio sull’incapacità di affrontare costruttivamente il tema più specifico dell’essere studenti, cioè lo studio. E’quindi doveroso integrare il loro punto di vista con quello della controparte, i docenti. Abbiamo così intervistato il prof. Paolo Collini, docente a Trento di Economia aziendale, vice-preside di Economia, e delegato di facoltà proprio sul tema della didattica.

Il prof. Paolo Collini.

Gli studenti lamentano, come effetto della recente riforma, e dell’enfasi sulla quantità dello studio, un conseguente scadimento della sua qualità, la riduzione degli spazi per ragionare sulle cose, per maturare un pensiero critico. Insomma, la trasformazione dell’Università in Liceo.

"E’ un tema su cui anche noi stiamo molto riflettendo - risponde Collini - Facciamo un passo indietro e partiamo dagli obiettivi della riforma, che si proponeva due cose soprattutto: dare alla nazione più laureati e in tempi più rapidi. Quindi attrarre più studenti all’università (e questo è stato raggiunto, a livello nazionale abbiamo più iscritti, meno scoraggiati dai costi di un percorso più breve, e dagli esiti meno incerti) e licenziare più laureati e di età più giovane".

Se è evidente il vantaggio per la nazione nell’avere un numero maggiore di laureati, è meno comprensibile l’enfasi sulla giovane età dei laureati…

"E’ un discorso di concorrenza sul mercato del lavoro a livello europeo: la Philips non distingue il laureato italiano dagli altri, per l’Europa chi si laurea a 27 anni è uno zuccone, e così vengono valutati i nostri ventisettenni, che magari hanno una preparazione più che discreta".

La cosa continua a lasciarci perplessi: preferiamo un ventisettenne che è arrivato alla laurea con un percorso di vita, ragionandoci su, magari lavorando, al ventiduenne pollo di allevamento cresciuto in aula. Se poi le multinazionali preferiscono i polli, forse non è il caso di adeguarsi… D’altra parte è vero che tutto questo non è efficiente, comporta costi per l’insieme della società.

"Quello che incideva era soprattutto l’altissimo livello di insuccesso: – prosegue Collini - il 70% degli iscritti non si laureava a livello nazionale, il 50% a Trento, e sono tutte risorse perse. Insomma, il sistema non era efficiente. E’ vero, si spendeva molto poco per ogni studente, ma si finiva con lo spendere abbastanza per ogni laureato".

E quindi?

"Ci si è mossi inserendosi in un quadro comune di armonizzazione dell’università europea, secondo uno schema anglosassone: un primo livello universitario riservato ai tanti, che altrimenti a laurearsi non ce la fanno; e un ulteriore livello per pochi, cioè per quelli che si laureavano anche prima. L’idea non è malvagia: da una parte conserviamo la buona preparazione per i migliori, dall’altra allarghiamo il numero dei laureati. C’è però un difetto: gli studenti del percorso lungo, per tre quinti del loro studio, fanno le stesse cose degli altri. Il punto è che i contenuti teorici, metodologici, poco pragmatici, sarebbe bene affrontarli prima; e la specializzazione, più pragmatica, praticarla poi".

Dubito anche che lo spirito critico si possa imbalsamare per tre anni...

"Certo, e soprattutto nei primi tre, i più formativi; in cui si deve insegnare a pensare. Il percorso formativo ne è quindi uscito capovolto.

Poi i contenuti: il testo della riforma parla di una preparazione"spendibile nel mondo del lavoro" cioè professionalizzante. Secondo noi è un obiettivo troppo limitato: noi non dobbiamo fornire delle capacità immediate, e quindi contingenti, che magari dopo cinque anni sono superate. Per questo cerchiamo di dare, nei primi tre anni, una preparazione non "spendibile" ma "utile nel mondo del lavoro".

E così, mentre c’è chi ha istituito corsi di laurea molto specifici, molto orientati alle richieste delle imprese, noi per esempio ad Economia proponiamo solo tre indirizzi, quindi con un orientamento più generale".

I rilievi degli studenti non finiscono qui...

"Neanche i nostri. Difatti, l’obiettivo di laureare una gran parte degli iscritti in tempi certi e più brevi (3 anni invece dei teorici 4 e pratici 5-6 n.d.r.) ha portato un’ulteriore conseguenza: il tempo è minore, quindi si fa ancora un po’ di tutto in un tempo più breve, in pratica un distillato; i contenuti non risultano tagliati, ma sfrondati, e proprio delle parti più riflessive e critiche. E inoltre c’è un aumento del numero di ore di lezione; il che va bene, ma sposta l’equilibrio ancora a danno della riflessione, che si fa da soli, nel lavoro individuale".

Gli studenti distinguono tra facoltà scientifiche, dove un aumento delle ore di laboratorio è probabilmente positivo, e umanistiche, dove invece pesa il minore studio individuale.

"Probabilmente è così. Però queste conseguenze non sono tutte inevitabili. Non è scritto da nessuna parte che un sapere più concentrato debba essere più spezzettato: ci si può concentrare su alcuni temi, si possono utilizzare le ore di laboratorio, anche nelle facoltà umanistiche, per esempio per approfondire dati, con una didattica adeguata. Invece, quasi per inerzia, siamo arrivati alla situazione attuale, per cui è vero che oggi la nostra formazione non è all’altezza di quella di una volta; e d’altra parte sarebbe stato illusorio pensare di ottenere i nuovi obiettivi (più laureati in tempi più brevi) mantenendo inalterata la preparazione. Poi c’è anche una questione di..."

... di materiale umano?

"Non volevo usare questo brutto termine: diciamo che se prima si iscrivevano 300 studenti e ne laureavo 100, e oggi voglio averne 500 iscritti e 400 laureati, i 300 laureati in più sono quelli che prima non ce la facevano: come motivazioni, resistenza anche fisica, capacità anche economiche. Per cui è assurdo pensare che oggi, miracolosamente, tutti i 400 abbiano le stesse capacità dei 100 di prima. La nostra università era elitaria, per pochi iscritti e pochissimi laureati; e anche quand’è diventata università di massa, non se ne era modificata la struttura".

Questa la situazione, dunque. E a questo punto? Dobbiamo forse rassegnarci?

"No. Anche perché siamo incoraggiati dai risultati. Il sistema universitario ha dimostrato grande capacità di cambiamento: in tre anni è cambiato tutto, e siamo sopravvissuti. Adesso però bisogna riaggiustare il tiro.

Si individuano due strade. La prima consiste nel limitarsi a migliorare l’attuale formazione indirizzata al mondo del lavoro; l’altra (quella che a Trento stiamo studiando) punta ad una formazione parimenti indirizzata al mondo del lavoro, che però dia anche capacità di comprensione e riflessione oltre a quelle pratiche: il saper capire non come contrapposto, ma presupposto al saper fare".

Sono belle parole...

"Non solo. Ci sorregge la realtà dell’evoluzione dei mestieri, rapida e imprevedibile. Per cui non credo dobbiamo dare troppo peso alle lamentele delle imprese. "Non gli insegnate niente" - ci dicono; ma io ho maturato la convinzione che non vogliono una formazione pratica, ma una specifica, ma quella possono dargliela solo loro. Se la Fiat ha un suo sistema informativo, glielo devono insegnare loro, noi non possiamo insegnare 500 specifici sistemi aziendali.

Riteniamo che la nostra formazione, di carattere più generale, sia più utile, in un mondo in cui i saperi specifici diventano subito vecchi e bisogna saper impararne di nuovi.

Per questo vogliamo riaggiustare alcune cose, togliendo qualche contenuto specifico e invece aumentando la parte di riflessione critica; è meglio studiare qualcosa di meno, ma studiato meglio, valutato, approfondito.

Ma c’è dell’altro: bisogna offrire due percorsi, da 5 anni e da 3, ma la scelta non va fatta alla fine dei tre, ma all’inizio, dopo un primo di anno di ambientamento uguale per tutti (vedi schema a Y nell'illustrazione, n.d.r.), in maniera che chi sceglie l’opzione lunga si indirizza da subito verso uno studio più approfondito. Restano da precisare meglio le condizioni di passaggio da un percorso all’altro, al termine del triennio, perché se il passaggio è libero, lo studente tende a scegliere il percorso più facile".

Vi è un’ultima obiezione da parte degli studenti, riguardante la diminuzione del tempo libero, che impedisce di utilizzare la vita di studente come momento di sperimentazione.

"E’ un’obiezione pertinente; d’altronde non si può cavare sangue dalle rape, in meno tempo si fanno meno cose, si possono fare meglio meno cose, ma fatalmente se ne fanno meno. Noi puntiamo, lo dico sinceramente, a fare lavorare molto gli studenti: magari in attività di ricerca, di gruppo, magari con valenza sociale, ma prevediamo un carico di lavoro significativo. Che questo porti ad un impoverimento dell’esperienza universitaria, è indubbio, e lo abbiamo riscontrato nell’inaridimento delle associazioni universitarie. E’ cambiato il profilo dello studente universitario come persona che ha poco da fare; questo non è più vero, e noi facciamo in modo che non lo sia. Era un’idea forse romantica; ma oggi anche i figli delle classi agiate non sono inclini a perdere anni, hanno voglia di giocarsi la loro partita nel mondo.

In ogni modo non vorrei che si esagerasse: gli studenti sono effettivamente più impegnati, faticano di più, però di tempo per attività sociali ce n’è ancora".