Menù
Home
QT
Questotrentino
Mensile di informazione e approfondimento
Utente
Cerca

La lezione del voto di Lamon

L’attrazione verso il Trentino ha motivazioni precise: l’assenza in Veneto di una politica per la montagna. Purtroppo anche in Trentino, ultimamente si guarda proprio al modello Nord-Est...

Lamon

La gelida slavina fra il Trentino e il Veneto avvenuta domenica 23 ottobre a Lamon si trasformerà in valanga o evaporerà i suoi effetti agli ancor tiepidi soli autunnali? In altre parole, la decisione dei 2377 cittadini che su 2558 votanti del comune veneto incuneato tra quelli trentini di Castello Tesino, Canal San Bovo e Imer hanno detto sì al referendum per il passaggio alla provincia di Trento avrà qualche effetto sulle politiche della regione Veneto, sulle riflessioni (e le decisioni) della Provincia di Trento, sui rapporti tra i territori che formano la regione dolomitica?

Commenti e polemiche che hanno seguito quel voto non sono segnali di responsabili conseguenze di un voto che rappresenta al contempo aspirazioni, malessere, disagi e risentimenti nelle zone ai confini con la provincia di Trento (e di Bolzano). Un anno fa era l’intera provincia di Verona a chiedere provocatoriamente l’annessione al Trentino; nei giorni successivi al voto di Lamon, orientamenti analoghi sono stati espressi da Asiago e da Sovramonte, comune prossimo, per storia e territorio al comune che col suo referendum ha innestato il detonatore di una vicenda politica dagli esiti imprevedibili.

Da parte veneziana, in particolare per bocca del debordante presidente Giancarlo Galan, si è cercato di liquidare questa protesta di dimensioni sempre più vaste, sorta di insurrezione delle terre montane del Veneto che coincidono largamente con i confini della provincia di Belluno, come mera conseguenza dei privilegi finanziari della speciale autonomia trentina (e altoatesina).

Il presidente della Regione Veneto Giancarlo Galan.

Non c’è stata nessuna analisi critica sull’abbandono delle valli bellunesi, salvo i pochi centri ad altissima vocazione turistica, che peraltro con Cortina ambiscono al ricongiungimento con Bolzano. Eppure anche a chi percorre in modo saltuario quei territori è immediatamente percepibile la precarietà della vita economica, dei servizi sociali, lo squallore degli edifici abbandonati, finanche un’evidente insicurezza idrogeologica. Una situazione che ricorda per tanti versi la condizione del Trentino fino agli anni Sessanta, prima della grande alluvione e del nostro contraddittorio, ma consistente "balzo in avanti".

Asiago

Non si è fatta nessuna critica sul modello di sviluppo regionale veneto, ricco di energie e di imprenditorialità, tanto da diventare nel decennio passato il modello su cui si pensava potesse poggiare il secondo miracolo economico italiano, ma che si è inceppato e annullato nella sprezzante sottovalutazione del fattore cultura-istruzione-ricerca, nella dissipazione del territorio e del paesaggio, nell’accreditamento del benessere come esclusivo frutto dell’"arricchitevi".

Nessuna critica su un centralismo regionale incompatibile con realtà diversissime per vocazione e sviluppo: difficile infatti pianificare da Venezia opportunità comuni per la Val di Zoldo, Enego sugli Altipiani e le terre polesane di Occhiobello.

E a risentirne stata proprio la montagna, per la quale nessuna politica è stata nemmeno pensata.
Ma anche la reazione trentina (e sudtirolese) non pare aver colto il nocciolo del messaggio che propone e impone il contenuto delle interessate simpatie per la provincia vicina di comuni da sempre veneti per costume, storia e parlata, confermati dai tanti Leoni di San Marco e dalle bifore gotiche dei palazzotti municipali.

Si è passati qui dal malcelato compiacimento per l’opzione trentina espressa dal voto di Lamon e dalle dichiarazioni di tanti nei comuni aspiranti a seguirne l’esempio, ad una rivendicazione formale delle leggi fondanti la speciale autonomia trentina.

Si è dimenticato di ricordare, poiché a questo nessuno dei nostri potenziali concittadini vi aveva fatto riferimento, che il Trentino, cosi com’è oggi, è certo anche il frutto dei soldi dell’Autonomia, ma prima ancora, e di più, di regole e storie antiche, di un uso del territorio misurato, di un volontariato diffuso, di una cooperazione economica e sociale che ha permesso di far vivere comunità, tutte cose impossibili fuori da un consolidato tessuto di politiche solidali.

Il punto è che il Trentino rischia se stesso e il proprio futuro importando, soprattutto nell’uso del territorio e nell’avversione alle regole, proprio quel modello veneto, che è tanto miseramente fallito a casa sua. Questo processo è talmente incombente che anche una Chiesa in troppi casi "disimpegnata" come quella tridentina, si è trovata a denunciarne il pericolo, come è recentemente avvenuto al convegno di Borgo Valsugana sulla mobilità.

Il profilo bassissimo tenuto dal Trentino sulla proposta di ottenere dall’UNESCO il riconoscimento delle Dolomiti come patrimonio dell’umanità (differenziandoci in questo dalle più sagge proposte bellunesi), ma più in dettaglio la perdita di controllo del territorio da parte dell’ente pubblico rispetto all’assalto delle ruspe, confermato da un succedersi inquietante di episodi nell’arco di poche settimane (in Marmolada, sulla Paganella, nella Val della Mite in pieno Parco Nazionale dello Stelvio), confermano la fragilità con cui possiamo difendere la nostra storia, le nostre ragioni, oltre che i nostri soldi, dall’assalto dei nostri "antipatizzanti" vicini e di fronte all’intera comunità nazionale. Per non parlare della paradossale situazione per cui, per una politica sullo smaltimento dei rifiuti, pratichiamo Brescia (e la sua municipalizzata Asm, capofila degli inceneritori italiani) per una scelta basata su soluzioni affaristiche, mentre dovremmo seguire Treviso (e il suo consorzio Priula, esempio nazionale di raccolta differenziata), per avere una politica che rispecchi le esigenze, le potenzialità, la disponibilità dimostrata dai cittadini delle città e delle valli trentine.

Abbiamo imparato che modificar confini ha sempre delle conseguenze negative e comunque imponderabili. Per questo si doveva dire che politica assai più saggia è rendere i confini impercettibili, anche quelli fra i nostri comuni e le nostre province, con politiche di collaborazione e di solidarietà nell’ambito di progetti comuni. Ricordando a noi stessi che se un tempo eravamo invidiati per la nostra capacità di ben sperimentare competenze e risorse con politiche innovative nel campo sociale, urbanistico, della cultura e della ricerca, stemperando con il ben fare i risentimenti per la specialità delle nostre entrate, oggi che più difficile è dimostrare il ben fatto, fuori dei nostri confini resta, diffuso, il sentimento di una terra che beneficia di immeritati privilegi. Una riflessione, questa, che dovrebbe essere introdotta anche nelle modalità e nella sostanza con cui si arriverà a realizzare e presentare il partito democratico autonomista trentino per le prossime elezioni politiche nazionali di primavera. Se ancora una volta dovessimo essere percepiti, anche nell’ambito del centro sinistra, come gli inventori di "furbate" elettorali (legate a pretese particolarità linguistiche, come la presenza di 10.000 ladini, quando tutta Italia è costellata di altrettanto significative minoranze) per difendere privilegi del ridotto trentino o per rivendicarne altri, non avremmo contribuito a motivare le tante ragioni dell’autonomia trentina.

Anzi, rischieremmo di trasformare lo smottamento di Lamon in una valanga capace di nuocere oltre che alla regione Veneto, anche al Trentino.