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L’appello e la grazia

Abolire il secondo grado di giudizio? Sulla grazia ha ragione Ciampi o Castelli?

La questione dell’abolizione del grado di appello è dibattuta da molti anni in relazione alla efficienza e alla rapidità dei processi. Ricordo di essermi schierato per l’abolizione del secondo grado di giudizio, ma di essermi poi ricreduto per ragioni di giustizia sostanziale. Ora il dibattito si è spostato in seguito alla proposta dell’on. Pecorella, che priva il Pubblico Ministero della facoltà di appellare nel caso in cui la sentenza di primo grado sia in favore dell’imputato, cioè di assoluzione. La prima questione da affrontare è quella di vedere se la Costituzione garantisce un secondo grado di giudizio di merito. La risposta è negativa.

La seconda questione è : perché si dovrebbe assegnare all’imputato una posizione di favore rispetto al PM? Forse in base all’articolo 111 della Costituzione? No, perché non è detto che una sentenza sia giusta se è di assoluzione e sbagliata se è di condanna. L’approccio per cercare di risolvere il problema è probabilmente un altro. Bisogna partire, io credo, dalla constatazione che i diritti dell’imputato sono uguali a quelli della vittima, e non possono essere né attenuati, né aboliti. La privazione del potere d’appello al P. M. in caso di proscioglimento o di assoluzione toglie alla vittima anche il potere di impulso alla impugnazione di cui ora gode. Ma c’è un’altra argomentazione che a me pare decisiva. Il nuovo Codice di procedura penale ha abolito l’assoluzione per insufficienza di prove, ma ha previsto l’assoluzione a norma dell’art. 530 comma 2°.

Che significa? Che il giudice deve assolvere quando la prova è contraddittoria, insufficiente o mancante. Se la prova è contraddittoria essa comporta una lettura critica del materiale probatorio, e come osserva giustamente il prof. Giuseppe Riccio (v. Diritto e Giustizia, n° 9, 5 marzo 2005) il confine tra condanna e assoluzione è sottilissimo e dipende anche dal sistema dei controlli. Di fronte a una lettura alternativa del contributo probatorio delle parti non è ammissibile privare il PM e la parte offesa della facoltà dell’appello. L’assoluzione in primo grado non può essere un terno al lotto per l’imputato, né un beffa per la parte offesa. Per sveltire il giusto processo la strada è un’altra: non già ridurre le garanzie processuali, ma liberare il processo da tutti gli eccessi formalistici. Il prof. Riccio, e io sono d’accordo, ritiene che è necessario stabilire con chiarezza le cause di inammissibilità di Appello, creando un filtro, per esempio una camera di Appello, che si occupi di segnalare le impugnazioni non pretestuose, né semplicemente dilatorie in cerca della fatidica prescrizione.

La questione è nota da tempo. In forza dei poteri previsti dall’art. 87 della Costituzione il Presidente Ciampi ha dichiarato di voler concedere la grazia a Ovidio Bompressi (omicidio Calabresi). Il ministro Castelli si è opposto rifiutandosi di predisporre il decreto e di controfirmarlo. Ciampi è quindi ricorso alla Corte Costituzionale proponendo conflitto di attribuzione di poteri nei confronti del ministro. Ciampi sostiene che il potere di grazia compete solo a lui, e che la preparazione del decreto e la firma del ministro sono da considerarsi "atti dovuti", anche se il ministro è contrario. La Corte Costituzionale, con ordinanza 28 settembre 2005 n°354, ha dichiarato ammissibile il ricorso,e riservato ogni giudizio definitivo nel merito.

Ovidio Bompressi

E’ presto quindi per dire che Ciampi ha vinto e che la Corte gli darà ragione. Per me Castelli è senza dubbio dalla parte del torto, perché sono convinto che il potere di grazia non è duale, ma è esclusivo del Presidente della Repubblica. E’ vero che secondo l’art. 89 della Costituzione nessun atto del Presidente è valido se non è controfirmato dai ministri preponenti, che ne assumono la responsabilità. Ma ciò vale solo per gli atti di natura politica. La grazia invece non interferisce con la politica penale del Governo o del Ministro di giustizia, in quanto misura di clemenza individuale "eminentemente umanitaria ed equitativa". La prassi ministeriale in materia di istruttoria e concessione della grazia, che prevede il consenso del Ministro e la sua controfirma non può essere elevata al rango di consuetudine costituzionale.

Come andrà a finire? E’ difficile azzardare previsioni. C’è tuttavia un fatto nell’ordinanza della Corte che sembra autorizzare una interpretazione ottimistica. Nel contrasto Ciampi-Castelli la Corte non ha chiamato in causa il Governo. Eppure la Corte aveva recentemente stabilito, con ragione, che "il contrasto fra un potere dello Stato e il singolo ministro interessa e coinvolge l’intero Governo, perché l’individualità dei singoli ministri resta assorbita nella collegialità dell’organo". La decisione di non chiamare in causa il Governo può allora significare che il potere di clemenza individuale non rientra, per la Corte, nella sfera dell’indirizzo politico del Governo: la grazia cioè è prerogativa esclusivamente individuale (vedi A. Pugiotto, costituzionalista, in Diritto e Giustizia n° 35, ottobre 2005).

Osservazione acuta. Non si vede come sia possibile ora far rientrare dalla finestra ciò che la Corte ha cacciato dalla porta. L’idea della grazia come strumento di politica attiva è difinitivamente caduto. C’è da sperare fondatamente che la Corte Costituzionale dia ragione al presidente della Repubblica.