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Memorie refrattarie

Dal discorso di Violante sui “ragazzi” di Salò alla celebrazione repubblichina di Rovereto.

Nessuno ci avrà badato, ma era quasi l’anniversario di un decennale, quel 21 maggio 2006, il giorno della "cerimonia commemorativa per onorare i caduti in armi della Repubblica Sociale Italiana" presso la Campana dei Caduti. Il 9 maggio 1996 Luciano Violante, nel discorso d’insediamento alla Presidenza della Camera, in un momento dunque di particolare solennità e ad apertura di un nuovo ciclo politico, aveva dedicato ai "ragazzi" di Salò un passaggio poi aspramente discusso. E’ forse il caso di rileggerlo, in uno spazio che si propone come promemoria.

"Mi chiedo se l’Italia di oggi – e quindi noi tutti – non debba cominciare a riflettere sui vinti di ieri; non perché avessero ragione, o perché bisogna sposare, per convenienze non ben decifrabili, una sorta di inaccettabile parificazione tra le parti, bensì perché occorre sforzarsi di capire, senza revisionismi falsificanti, i motivi per i quali migliaia di ragazzi e soprattutto di ragazze, quando tutto era perduto, si schierarono dalla parte di Salò e non dalla parte dei diritti e delle libertà. Questo sforzo, a distanza di mezzo secolo, aiuterebbe a cogliere la complessità del nostro paese, a costruire la liberazione come valore di tutti gli italiani, a determinare i confini di un sistema politico nel quale ci si riconosce per il semplice e fondamentale fatto di vivere in questo paese, di battersi per il suo futuro, di amarlo, di volerlo più prospero e sereno. Dopo, poi, all’interno di quel sistema comunemente condiviso, potranno esservi tutte le legittime distinzioni e contrapposizioni".

Violante non proponeva un azzeramento delle identità storiche. Si illudeva piuttosto che si potesse realizzare una sorta di patto reciproco, che prevedeva da una parte (quella di chi rimase fedele al nazismo e al fascismo) un compiuto riconoscimento postumo delle ragioni della democrazia vittoriosa; dall’una e dall’altra parte un rispetto, che subentrasse al sentimento di incompatibilità antropologica.

Di positivo rimane, in quel discorso, la tensione ad andare oltre la demonizzazione (o la banalizzazione) del nemico. Ma il dibattito che è seguito ha messo a nudo impietosamente rischi e fragilità della proposta. Le reazioni critiche di una larga parte della sinistra erano prevedibili e probabilmente previste. Ma anche interlocutori poco inclini a riposare dentro gli schemi più rigidi della rappresentazione militante del passato obiettarono a Violante gli equivoci della "condivisione" da lui auspicata, contrapponendovi la necessità, o l’elogio, della memoria divisa. "Il rischio di una memoria condivisa" - ha sintetizzato con efficacia uno storico della generazione più giovane, Sergio Luzzatto – "è una ‘smemoratezza patteggiata’, la comunione nella dimenticanza".

Cosa ha a che fare questo dibattito con il modesto episodio dei reduci saloini sul Colle di Miravalle? Niente e molto, ad un tempo. L’iniziativa della Sezione di Rovereto dell’Unione Nazionale dei reduci della repubblica mussoliniana non rientra nella costruzione di una memoria condivisa, anzi, è piuttosto un gesto di rivendicazione di una memoria irreparabilmente separata. Nelle dichiarazioni che si sono lette in questa circostanza prevale un’autoapologia refrattaria ad ogni consapevolezza critica.

Questa irriducibilità può esasperare o scoraggiare, a seconda dei punti di vista. Ma esiste, anche se riguarda solo una parte di quelli che furono coinvolti direttamente in quella vicenda storica, con gradi assai diversi di scelta volontaria, e che oggi sono anziani, come anziani sono gli antagonisti di sessant’anni fa. C’è qualcuno che ritiene che la sopravvivenza di un’"altra memoria" possa essere abrogata da qualche autorità? O qualcuno che si possa arrogare il diritto di imporre le forme in cui dovrebbe manifestarsi? Lo dico senza esplicitare i troppi riferimenti di attualità che mi si affollano nella mente mentre cerco un esempio: c’è qualcuno che ritiene che la democrazia vittoriosa non possa concepire altro mondo che ordinato a sua immagine e somiglianza? I segni del ricordo non conformi devono ovunque e sempre essere repressi?

Certo, la Repubblica Sociale è stata fedeltà al nazismo, e il nazismo è nella coscienza collettiva "male assoluto". Ma perfino questa convinzione va continuamente riconquistata, piuttosto che imposta come un tabù che alimenti in qualche frangia delle nuove generazioni riflessi di trasgressione.

La vicenda ha messo in luce la trasformazione in atto del significato di un monumento atipico come la Campana. La sua origine nell’Italia del primo dopoguerra, per inventiva di un prete nazionalista e fascista, ma capace di conferire alla sua creatura una dimensione simbolica di orizzonte più vasto, è legata all’elaborazione del lutto per la morte in guerra e al culto del soldato caduto. Le ritualità che hanno accompagnato la sua storia, finché esse furono ispirate direttamente da don Rossaro e anche oltre, rientravano, sia pure in modo originale, nella religione della patria e non mettevano in discussione la cultura della guerra.

Dopo il 1945 all’universalismo "romano" della prima fase è subentrata un’ispirazione più direttamente influenzata dal magistero cattolico, che si è evoluta progressivamente verso una cultura della pace e il dialogo interreligioso.

Gli ultimi tre decenni in particolare sono stati caratterizzati da forti iniziative in questa direzione e da una parziale eclisse del monumento come tale, la cui riconversione simbolica rispetto alla sensibilità del nostro tempo non si realizza senza residui.

La realizzazione, finalmente, di una sede più accogliente e l’impronta del nuovo Reggente Alberto Robol, più incline del predecessore Monti a ripristinare una magniloquenza del monumento "a voce viva", hanno spostato l’equilibrio dalle iniziative formative ispirate alla non violenza alle molteplici opportunità del luogo della memoria.

Si tratta di un’evoluzione che andrebbe seguita con attenzione critica maggiore di quella che finora ha avuto. La netta divergenza tra Robol e Monti in questa circostanza è forse il sintomo di un travaglio più profondo di una contingente difficoltà "diplomatica".