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Scemi di guerra

Un documentario “trentino” di Enrico Verra che andrà in onda il 25 aprile su History Channel: sugli squilibri mentali dei soldati al fronte nella Grande Guerra.

Sono tanti i volti disorientati e terrorizzati che popolano le fotografie e i filmati realizzati durante e dopo la Prima Guerra Mondiale. Attraverso i diari, le lettere, le cartelle cliniche, i filmati d’epoca e le analisi di storici il documentario "Scemi di guerra" (in onda il prossimo 25 aprile alle 21 su History Channel) accompagna lo spettatore in un viaggio attraverso le immagini dei i soldati impazziti sui campi di battaglia.

Il documentario di Verra punta i riflettori sull’insorgenza tra le truppe di una nuova malattia mentale, lo shock da combattimento. Nel corso della Prima Guerra Mondiale un numero enorme di uomini visse in condizioni disumane nelle trincee, costantemente sotto il tiro dell’artiglieria nemica. Soldati male o per nulla equipaggiati, terrorizzati ed affamati, cominciarono a dare segni di squilibrio mentale. Portati nei manicomi, incontravano psichiatri che non sapevano come affrontare questa nuova patologia e applicavano terapie improvvisate, nel tentativo di rispedirli al fronte nel minor tempo possibile. Solo per i casi più gravi era previsto un ricovero e nel linguaggio popolare il paziente iniziò ad essere definito "scemo di guerra". Per tutti gli altri la destinazione era il fronte.

Il regista Enrico Verra ci ha parlato della nascita e dello sviluppo di questo documentario.

Scemi di guerra’ è un progetto nato dall’incontro con lo scrittore Davide Sapienza: abbiamo scoperto un comune interesse sulla prima guerra mondiale ed abbiamo iniziato a lavorarci sopra. Eravamo attratti dalla possibilità di comprendere l’esperienza dei soldati al fronte, cosa passasse nelle loro teste, quale fosse il paesaggio che li circondava. Proseguendo insieme su questa strada, siamo arrivati a mettere a fuoco un soggetto importante, la nascita di una nuova forma di follia all’interno delle trincee. Abbiamo iniziato a cercare alcune piste che potessero farci proseguire lungo questa direzione e per questo siamo venuti a visitare le due principali istituzioni storiche trentine, il Museo Storico Italiano della Guerra di Rovereto e il Museo Storico in Trento, dove abbiamo incontrato rispettivamente Camillo Zadra e Quinto Antonelli, due precursiori degli studi sulla memoria dei soldati durante la Grande Guerra.

Abbiamo domandato loro quali fossero le emozioni, gli stati d’animo e le paure condivise dalle enormi masse mobilitate in quegli anni e abbiamo deciso di raccontarlo attraverso i diari e le scritture private dei soldati, un terreno ormai ampiamente praticato dagli storici che si occupano di quel periodo ma probabilmente poco diffuso tra il pubblico televisivo.

La scrittura in generale e il diario in particolar modo sono stati elementi importantissimi per milioni di soldati. La scrittura ha rappresentato per loro la possibilità di una dimensione di vita parallela, un luogo tutto interno e soggettivo, che oggi possiamo leggere come un prezioso punto di vista, allo stesso tempo parziale ma di forte impatto. Sono testimonianze immediate che proprio grazie al lavoro degli storici sono diventate fondamentali per capire il lato più oscuro di un conflitto che ha rappresentato l’inizio della modernità nella sua veste più tragica e drammatica: quella della riduzione dell’individuo a numero, della disumanizzazione dei rapporti umani.

L'isola di San Servolo a Venezia.

Da lì sono iniziate le ricerche, poi si è unita al lavoro Francesca Zanza che ha portato un contributo fondamentale sia in fase di scrittura che successivamente in fase di ricerca di materiali d’archivio. Così il nostro percorso, iniziato da Trento e da Rovereto, si è diretto verso l’isola di San Servolo a Venezia, dove tutt’ora si conserva un immenso archivio di cartelle cliniche tutte corredate da fototessere che raccontano attraverso migliaia di sguardi la distruzione psichica provocata dall’esperienza bellica.

La ricerca si è progressivamente allargata per cercare di documentare quanto più precisamente possibile il percorso mentale dei combattenti; è stata una fase durata parecchi mesi e ogni momento successivo di questo percorso ha comportato una variazione e uno sviluppo di sceneggiatura. La ricerca d’archivio e la scrittura filmica si sono incrociate in continuazione, passo dopo passo il progetto si è affinato e precisato fino alle ultimissime fasi di montaggio, praticamente fino alla chiusura del film.

Il montaggio si è rivelato molto complesso, perché abbiamo dovuto mettere ordine e accordo tra molti elementi che erano difficili da conciliare: non si trattava di una semplice narrazione lineare e consequenziale come può essere la descrizione di una singola battaglia o di un episodio bellico, abbiamo invece scelto di provare a ricostruire i percorsi mentali delle persone coinvolte, delle vittime della guerra, un tema molto difficile da visualizzare, perché partendo dalla condizione mentale dei soldati si potevano sviluppare moltissime direzioni differenti.

Serviva infine una grande semplicità nello spiegare gli elementi in gioco e, dato il target televisivo, era importante farlo in termini molto comprensibili. Penso che siamo riusciti a trovare un valido equilibrio tra le due cose; la nostra ambizione è stata di non rinunciare né alla chiarezza né alla complessità del tema. Personalmente, come regista, mi sono costantemente trovato davanti alla difficoltà di raccontare l’orrore estremo di un’esperienza utilizzando immagini di fortissimo impatto. Ho cercato di seguire un’idea di necessità nell’utilizzo di queste immagini senza censurare - o autocensurarmi - nel loro utilizzo.

Il risultato che abbiamo raggiunto lo si deve al lavoro e al coraggio di diverse persone. Un grazie particolare va al produttore e all’organizzatrice del film, Gregorio Paonessa e Federica Masin. Sono loro che mi hanno spinto ad andare fino in fondo alle possibilità di raccontare questo tema e lo hanno fatto permettendomi di lavorare concretamente come se si trattasse di una produzione cinematografica a tutti gli effetti, il che significa l’aver potuto curare con estrema attenzione il suono, di disporre di un direttore della fotografia del calibro di Gherardo Gossi: un lusso che generalmente in questo tipo di produzioni non viene messo in conto.
La collaborazione con i due musei è stata di grandissima importanza ed è stato molto emozionante accorgersi di come si affezionassero progressivamente al progetto. Il Museo di Rovereto ci ha fornito un aiuto immenso soprattutto sul piano visivo, mettendo a nostra disposizione la splendida collezione di fotografie di cui dispone. Un ringraziamento sincero va a Tiziano Bertè, che nonostante all’inizio reagisse in modo un po’ perplesso alle mie richieste mi ha poi aiutato con grande competenza e ci ha più volte accompagnato sul Pasubio per farci vedere i posti più importanti, quelli dove abbiamo girato la maggior parte delle riprese per il film. Abbiamo poi filmato alcuni oggetti conservati nelle collezioni del Museo della Guerra di Rovereto e per finire numerose cartelle cliniche conservate sull’isola di San Servolo.

La collaborazione con il Museo Storico in Trento si è indirizzata principalmente verso l’importante collezione di diari. Quinto Antonelli, la cui intervista scandisce diversi momenti del documentario, è stato una guida insostituibile per orientarci all’interno di questa marea di testi.

Per i filmati abbiamo iniziato a ricercare in alcuni archivi classici come quello dell’Istituto Luce, l’archivio della guerra di Vienna, quello dell’Imperial War Museum in Inghilterra, quello di Pathè Gaumont in Francia, poi la ricerca si è affinata con alcune preziose immagini ritrovate nei manicomi, immagini inedite in Italia e non solo.

Questa è senz’altro la parte più estrema di tutto il film, in cui si vedono documentate le diverse torture - come altro chiamarle? - a cui erano sottoposti i soldati che finivano in questi istituti psichiatrici. Il film in fondo racconta proprio questo scontro tra una neonata psichiatria militare e il soldato: era uno scontro spietato, una lotta impari fra la testa degli individui e un apparato soverchiante. Si tratta di una fase che è stata documentata come una grande novità: i medici si sentivano moderni perché credevano di poter risolvere un fenomeno moderno come lo schock da guerra e in alcuni casi hanno utilizzato il cinema come lo strumento moderno capace di documentare la malattia. In Francia abbiamo trovato una serie di filmati che denunciano ontologicamente l’orrore della struttura psichiatrica, dove la malattia viene mostrata interamente. Emerge in modo agghiacciante come in presenza di persone che erano state ridotte a fantasmi, a gusci vuoti, la psichiatria militare lavorasse tuttavia per riuscire a recuperare quei relitti di persone a soldati nuovamente pronti per combattere".