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Pace e bandiere

Giorgio Grigolli

Quello delle Bandiere post-belliche (Ugo Bosetti, sull’ultimo numero di Questotrentino) è un argomento che mi aveva già sollecitato a scrivere. Appunto: che si fa delle bandiere della pace? Di quelle tuttora pendenti dalle finestre dei condomini, dai balconi, da qualche edificio pubblico? Che fare adesso, a pace mancata, a guerra finita? Riporle tra i ricordi, esaurita una testimonianza (anche coraggiosa) di mille e mille? Oppure tenerle inalberate, a segnalare qualcosa? Cosa, fino a quando?

Avevo risposto, pressappoco, come adesso Enzo, 52 anni, ispettore di succursali di una multinazionale americana. Occorrerebbe, insomma, intendere "cosa" possa resistere, oltre le bandiere, perfino se ammainate per delusione. Non dovrebbe essere una caduta di tensione, semmai un modo "altro" di testimoniare.

Su Vita trentina ho proposto un incontro dialogato - perfino presso il sindaco Pacher o presso il vescovo - tra i costruttori di pace, momentaneamente sconfitti, riconoscibili tra i sostenitori di una "linea" papale, tra lillipuziani, girotondisti o altro, escludendo peraltro i pervasi da antiamericanismo becero.

Al momento, mi pare da sottolineare la lezione data dagli sbandieratori. La riprendo da una constatazione del New York Times: è nata una nuova superpotenza, l’opinione pubblica. Adesso questa nuova superpotenza dovrà fare i conti con una tendenza imperiale degli Stati Uniti, la novità seconda. Incombe, da qui in avanti, un impegno sostanzialmente culturale, la necessità di capire senza schematismi di comodo i connotati del tempo da attraversare. Appena dopo l’11 settembre, Bush aveva promesso di "liberare il mondo dal male", un’impresa - ha osservato Raniero La Valle - che i cristiani osano confidare solo nel Pater Noster, ultimamente ribadita da Bush non dalla tribuna del Congresso, ma dal pulpito della National Cathedral di Washington, citando impropriamente la lettera di Paolo ai Romani: "Noi abbiamo avuto l’assicurazione" che niente ci potrà separare dall’amore di Dio, Dio non abbandona l’America. La linea culturale (ovviamente anche politica) è di fargli intendere, anche duramente, che dal male occorre liberarsi insieme, precisando e concordando il disegno.

In attesa di definire lo scenario grande, occorrerebbe intendere quello circostante. Vittorino Andreoli ha osservato che "ognuno deve vivere in pace con se stesso… questa pace va costruita dentro ciascuno… ciascuno è ambasciatore della propria pace, il segno che si è in guerra è dato dalla rabbia, nella rabbia si condensa il nostro personale esercito, dispiegato in esercitazioni militari" (Avvenire del 6 maggio). In sostanza, la bandiera esposta dovrebbe coerentemente contraddire le liti di condominio, di caseggiato, di borgata, l’esclusiva sul "mio". La lezione vale anche per il Trentino carico di soldi e di pretese, come non mai attraversato da spinte contro, dominato dalla politica personalizzata, dai campanilismi e dagli ultimatum.

Insomma, occorrerebbe (ri) costruire e alimentare il territorio della pace, ciò che significa anche sorridersi, muovere il dialogo, accettare il confronto costruttivo, come bandiera permanente.