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QT n. 11, 31 maggio 2003 Servizi

I costi insostenibili della guerra infinita

Dalla "politica di difesa comune" al riarmo dell'Europa. Effetti, azzardi e costi del nuovo "realismo": e le obiezioni economiche di fondo alla politica di George Bush.

Roberto Tamborini

La guerra in Irak è finita come previsto: in modo rapido e relativamente "poco costoso". Tuttavia nei paesi occidentali, inclusi gli Stati Uniti stessi, l’happy end, diversamente dal solito, non è stato seguito da un vero e proprio trionfo liberatorio né da un indolore ritorno agli affari quotidiani. Gli interrogativi, le incognite, le ansie sul dopoguerra e sul futuro che ci prospetta la nuova dottrina americana continuano a gravare sul clima sociale, politico, economico.

I "falchi" neoconservatori hanno definitivamente conquistato la Casa Bianca? L’instaurazione armata della democrazia proseguirà colpendo gli altri "stati canaglia" nel Medio Oriente e altrove? Cosa resterà in piedi del diritto internazionale e delle istituzioni internazionali edificate sui milioni di morti di due guerre mondiali? Che ne sarà dell’Alleanza Atlantica e dell’Europa politica?

Come studioso dell’economia, e quindi con una competenza e una rilevanza assai modeste rispetto alla portata formidabile di questi interrogativi, direi subito che è ancora troppo presto per avventurarsi in previsioni, per non dire conclusioni. Personalmente trovo anche un po’ macabro misurare ogni giorno la febbre irakena per vedere se si tratta di un effetto convalescenziale o del sintomo di un tumore letale per la nuova dottrina americana. Trovo questa dottrina una iattura, ma non vorrei mai che la sua sconfitta avvenisse sulla pelle degli irakeni o di qualunque altro malcapitato.

Lo scenario che lentamente si dipana giorno per giorno va, invece, studiato con attenzione e ponderazione per comprenderne la portata e le linee di tendenza. E qui, rispetto ad un mio precedente intervento a guerra in corso, vorrei proporre due spunti di approfondimento.

Il primo riguarda la deflagrazione dello scontro in seno all’Onu
tra la visione formalista e legalista delle relazioni tra stati imperniata sul diritto internazionale e quella cosiddetta "realista" imperniata sul binomio potenza-interesse. Qualche giorno fa ho avuto il privilegio di assistere ad una bellissima conferenza sul diritto internazionale e la guerra organizzata dalla Scuola di Studi Internazionali della Facoltà di Economia di Trento, dove due eminenti colleghi giuristi, Mauro Politi e Patrizia De Cesari, hanno messo in luce i termini del problema in tutta la loro durezza. Il "realismo politico", di cui i neo-conservatori della Casa Bianca sono esponenti di specie particolarmente virulenta e aggressiva, è un’antica dottrina per la quale il diritto internazionale è "monco", in quanto, a differenza del diritto rivolto ai cittadini di uno stato sovrano, non ha istituzioni pienamente legittimate a crearlo né, soprattutto, a renderlo cogente con la forza - se necessario. Secondo i realisti nulla esiste di legittimo e cogente al di sopra degli stati sovrani, e il diritto internazionale non è altro che la collezione delle norme e delle pratiche che gli stati di volta in volta ritengono di legittimare. O in altri termini, la legittimità internazionale dell’azione di uno stato non è altro che il frutto del consenso degli altri stati su quell’azione.

A mio modo di vedere, accettando questa visione, si può andare verso due diversi modelli di relazioni internazionali. Il primo nasce dall’idea che bisogna costruire "il tavolo" - come oggi si usa dire - intorno a cui far sedere gli stati affinchè di volta in volta svolgano una trattativa sulla legittimità, o illegittimità, di una determinata azione. E questo potrebbe essere ad esempio il tavolo del Consiglio di sicurezza dell’Onu; non si tratterebbe di un luogo particolarmente nobile, e forse non molto diverso da quel che è stato, nel bene e nel male, finora. Il gioco intorno al tavolo della legittimazione internazionale, per quanto molto cinico e poco pulito, racchiude però una grano di saggezza molto prezioso, a cui tutti, finora, si erano ispirati: il riconoscimento reciproco a trattare (l’inibizione della potenza) accompagnato dalla disponibilità a trattare (l’inibizione dell’interesse).

Ma il realismo politico può spingere verso un altro modello di relazioni, imperniato sulla esibizione della potenza e dell’interesse, di modo che la legittimità internazionale non nasce da una trattativa consensuale tra stati, ma dalla capacità di affermare il riconoscimento del proprio interesse mediante il peso della potenza. In altri termini, intorno al tavolo dove si crea la legittimità internazionale gli stati non si contano ma si pesano. Si arriva, in buona sostanza, al diritto del più forte.

Gli attuali ispiratori della politica americana propongono apertamente questo secondo modello. Si saranno chiesti quali contromisure prenderanno gli altri? Se ragionamo col metro realista c’è una sola risposta razionale: aumentare la propria potenza. E infatti: la "vecchia" Europa sta ora correndo verso la "politica di difesa comune". C’è quasi unanime consenso nel dire che, nel quadro delle costruzione dell’Europa politica, si tratta di un passo avanti inevitabile e atteso da fin troppo tempo. Concordo. Ma pochi hanno fatto caso che ad esso ne viene fatto seguire un altro: il riarmo dell’Europa!

Dovrebbe essere superfluo rimarcare che non c’è alcun legame necessario e ineluttabile tra una politica di difesa comune e una politica di riarmo. Quest’ultima costituirebbe un clamoroso passo indietro lungo i cinquant’anni di costruzione identitaria, filosofica, ideologica, politica ed economica, dell’Europa uscita dalla seconda guerra mondiale. E un altrettanto clamoroso passo indietro nella logica e nei benefici dell’Alleanza Atlantica. La quale nacque per garantire il minimo livello di armamento necessario per la sicurezza esterna degli alleati, mentre ora l’aumento del potenziale bellico totale si renderebbe necessario non già per fronteggiare la minaccia esterna del terrorismo internazionale (nessuna persona seria crede che per battere Al Qaeda occorrano più carri armati tedeschi e più aerei francesi), ma per riequilibrare i rapporti di forza all’interno dell’Alleanza stessa!

Come prevedeva Kant, quando criticava i realisti del suo tempo, tertium non datur: se non siamo capaci di costruire le istituzioni del diritto e della giustizia, se ci affidiamo alla sola misura della potenza, la marea del riarmo, del disordine, del conflitto, della guerra non può che salire inesorabilmente e prendere il sopravvento.

Il secondo spunto di riflessione riguarda le conseguenze economiche dello scenario precedente. Molto stranamente, né i realisti americani né i loro seguaci europei sembrano porsi la domanda tipica dell’homo oeconomicus occidentale: ce lo possiamo permettere? Le complicazioni economiche che possono insorgere sono molteplici e vanno assai oltre gli effetti, reali o presunti, della guerra in Irak. Il fenomeno che dobbiamo prendere in esame è la possibilità di un innalzamento permanente del livello della spesa pubblica di difesa e offesa (in senso lato) di tutta l’area atlantica, un fenomeno inedito dalla fine della sconda guerra mondiale. Gli intrecci e ramificazioni di breve e lungo periodo sono troppi e troppo complessi per renderne conto qui. Limitiamoci a ipotesi sugli effetti di prima grandezza e per grandi paesi.

Gli Stati Uniti hanno già cominciato, producendo effetti da manuale: aumento rapido del disavanzo pubblico, ripresa della crescita del debito, svalutazione del dollaro. La situazione finanziaria di partenza è, però, sfavorevole: l’economia americana (pubblica e privata) ha un enorme debito con l’estero e la svalutazione del dollaro rappresenta una perdita per i creditori, che si aggiunge a quelle già subite con la crisi borsistica. Quindi può risultare difficile ottenere altri prestiti per finanziare "lo sforzo bellico" da parte di chi sta perdendo soldi (e non è poi nemmeno d’accordo politicamente). Inoltre, l’altro attore della scena economica di Washington, la Riserva federale di Alan Greenspan, si trova in grave imbarazzo: l’economia e la borsa sono deboli, i tassi d’interesse devono restare bassi; mentre un controllato impulso fiscale con svalutazione del dollaro può giovare, se si esagera sarà sempre più problematico mantenere l’attuale impostazione di politica monetaria per ragioni inflazionistiche (Greenspan l’ha già fatto sapere).

Sebbene la storia non si ripeta mai due volte allo stesso modo, c’è un precedente analogo: la guerra del Vietnam, la quale fu persa sul campo di battaglia ma anche sui mercati internazionali, con gli Stati Uniti incapaci di ottenere finanziamenti esteri, afflitti da un’inflazione crescente e costretti ad abbandonare il dollaro al proprio destino nell’estate del 1971.

Il presidente della Federal Reserve, Alan Greenspan.

In alternativa il governo americano può essere indotto a pagare interessi crescenti sul proprio debito, con una spinta verso l’alto sul dollaro, da un mutamento di politica monetaria in senso restrittivo. Questa svolta, che probabilmente Greenspan teme come un incubo, riproporrebbe un altro precedente infausto della storia recente, 1981-85, protagonisti Paul Volcker alla Fed (poi rimosso!) e Ronald Reagan alla presidenza: la combinazione di disavanzi fiscali (militari, per via della spallata finale all’Urss e lo "scudo stellare") e politica monetaria restrittiva produsse la più inusitata crescita dei tassi d’interesse e del cambio del dollaro del dopoguerra. Tra il 1981 e il 1991 gli Stati Uniti ebbero tre episodi recessivi e nel 1987 il crack di Wall Street che pose fine alla "spinta propulsiva" del reaganismo; l’infezione mondiale degli alti tassi d’interesse innescò gravissime crisi finanziarie e valutarie in America Latina, colpì l’economia europea e ne destabilizzò il sistema valutario.

Ai tempi del Vietnam e di Reagan, l’Europa si muoveva in controtendenza rispetto agli Stati Uniti: non aveva piani di riarmo e dal 1985 in poi ha cominciato a ridurre faticosamente la spesa pubblica e gli squilibri fiscali.

E’ difficile immaginare cosa potrebbe succedere se si affiancasse agli Stati Uniti nell’espansione della spesa strategico-militare. Per il momento, è anche difficile immaginare come potrebbe farlo, stante la camicia di forza del Trattato di Maastricht sui bilanci fiscali europei (Francia, Germania e Italia in testa). Qualcuno, con la benedizione dei real-politicisti, ha proposto di sottrarre le spese per la "difesa comune" dai vincoli del Trattato: la Commissione Europea ha detto no, come già disse no a proposte analoghe relative agli investimenti pubblici e alle spese per l’istruzione.

A torto o a ragione, costoro pensano che ogni euro di troppo che esce dalle casse dello stato è inutile, o nocivo, sia che sia speso per le ferrovie, le scuole o i carri armati. Sarà l’ortodossia finanziaria della tecnocrazia di Bruxelles a salvarci dalla follia di un inutile riarmo generalizzato dell’Occidente?