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QT n. 9, 3 maggio 2003 Servizi

Iraq: il difficile viene adesso

Sarà possibile conciliare le priorità americane con gli interessi e i desideri del popolo irakeno? Intervista al sociologo Adel Jabbar.

Gli entusiasmi filo-americani - peraltro moderati - della popolazione irakena di fronte alla liberazione dalla feroce dittatura di Saddam Hussein, stanno lasciando il posto alla preoccupazione per il futuro; e le prime mosse - peraltro previste - dell’amministrazione Bush in vista del futuro assetto politico del paese non sembrano fatte per tranquillizzare. L’esportazioine della democrazia si sta insomma rivelando una faccenda molto complicata.

Su questi temi siamo tornati (vedi precedente intervista Saddam e i suoi sudditi) ad interpellare Adel Jabbar, sociologo di origine irakena, docente all’Università di Venezia.

Manifestazioni degli sciiti a Kerbala.

"Bisogna partire dall’ovvia constatazione - ci dice Jabbar - che l’Iraq è un paese occupato da una potenza con un suo disegno ben preciso e dichiarato: una visione ‘securitaria’, che intende cioè mettere in sicurezza la regione e che quindi non esclude altri interventi militari. L’attore politico principale sono quindi gli Stati Uniti, e bisognerebbe vedere in quale misura questo attore politico sia interessato ad elaborare, per il dopo Saddam, un progetto fatto di pluralismo e di dialettica interna".

Prendiamo per buono ciò che gli Stati Uniti dicono, cioè di voler coniugare la propria sicurezza con la democrazia in Iraq: gli avvenimenti successivi alla vittoria militare americana vanno in questa direzione?

L'ex generale Jay Garner, "governatore" americano dell'Irak, tra i due principali leader curdi: Jalal Talabani (a sinistra) e Massoud Barzani.

"Vediamo quali sono gli altri attori della situazione. Anzitutto gli stati dell’area (Siria, Giordania, Turchia, Arabia Saudita, Kuwait, Iran); questi paesi hanno interesse a che in Iraq si instauri una dialettica poltica democratica, che non rientra esattamente fra le caratteristiche di quei regimi? Poi ci sono i protagonisti interni, e anzitutto le tre componenti che hanno in qualche modo appoggiato l’intervento americano.

Cominciamo con gli ex collaboratori di Saddam, elementi che si sono dissociati dal regime nel corso degli ultimi anni e che oggi vengono investiti di ruoli importanti: il controllo della zona di Mossul, ad esempio, è stato affidato a un ex dirigente dei corpi speciali di Saddam Hussein, mentre un ex capo dei servizi segreti militari è stato messo a capo di un’altra importante città del centro-nord dell’Iraq... Questa è gente che ha rivestito un ruolo importante nella repressione degli oppositori e che ora ha l’opportunità di ripristinare il proprio potere. Il loro disegno è molto chiaro.

C’è poi l’opposizione curda, che oggi è scissa sostanzialmente in due raggruppamenti: il Partito Democratico Curdo di Massoud Barzani, più titubante nei confronti della presenza militare alleata, e l’Unione Patriottica Curda di Jalal Talabani, più vicina agli americani. Entrambe queste formazioni aspirano alla creazione di uno stato nazionale curdo, ma sanno che la cosa è irrealizzabile, e quindi, pragmaticamente, si limiteranno a volere un rafforzamento dell’attuale situazione ‘protetta’".

In effetti, la situazione dei curdi irakeni, negli ultimi dieci anni, è stata, se non proprio felice, comunque meno drammatica che per altri cittadini di quel paese...

"La loro condizione non è stata comunque molto rosea. Il Kurdistan irakeno è rimasto diviso fra le due fazioni, ognuna delle quali controllava certe aree, con pesanti conseguenze sul piano sociale, e con ben poca dialettica culturale e democratica. Non è un caso se dalla regione curda, su cui pure Saddam non esercitava più alcun controllo, sia partita tanta emigrazione verso l’Occidente. Senz’altro c’era più pluralismo politico che nel resto dell’Iraq, ma non ci voleva molto... Resta il fatto che la regione era controllata dalle milizie dei signori della guerra. Costoro, oggi, intendono mantenere lo status quo, acquisendo maggiore legittimità grazie al sostegno americano.

Ma la componente più interessante è quella islamica filo-iraniana, gli sciiti; hanno un progetto politico, riferimenti valoriali più definiti, ed una storia più significativa, opponendosi a tutti i regimi che hanno governato l’Iraq nel corso del Novecento".

Oppositori in nome di che cosa, di una visione religiosa?

"Anzitutto in nome dell’indipendenza dell’Iraq e della giustizia sociale. Quando parliamo degli sciiti, ricordiamo che si tratta di 18 milioni di abitanti su 26. Non è una piccola setta, una comunità confessionale con una visione univoca, è una società complessa che non può avere una sola voce a rappresentarla. E’ una società presente nelle città, nelle campagne, nei vari ceti sociali, molto impegnata, fra l’altro, nella produzione culturale. E’ un mondo variegato attraversato da diverse correnti, sia nella componente secolarizzata, sia in quella più propriamente religiosa. Vi troviamo chi rivendica uno Stato religioso ma anche chi auspica la separazione fra politica e religione; ed esistono diverse idee per l’attuazione di entrambi tali progetti. E’ all’interno di questo mondo che oggi si trova la maggiore dialettica politica; non certo fra i vecchi seguaci di Saddam, che vogliono semplicemente ripristinare i propri privilegi, né fra i curdi, che vogliono mantenere in vita i potentati dei signori della guerra. Non a caso gli americani hanno arrestato alcuni esponenti sciiti particolarmente critici nei confronti della presenza militare straniera; il che ha innescato forti manifestazioni di protesta. E’ questa, in conclusione, la componente più importante, con una forte presenza sociale, capace di mobilitare e in grado anche di disporre di decine di migliaia di persone organizzate militarmente.

Ci sono poi da citare altri movimenti, a cominciare dal Partito Comunista, che ha avuto momenti di forte popolarità, ma che si è anche in qualche modo delegittimato collaborando, per anni, con Saddam. Comunque, il primo giornale uscito in Iraq dopo il crollo del regime, è stato opera del Partito Comunista. Il titolo di prima pagina recitava: ‘Per un Iraq democratico, federale, libero e indipendente’.

E ancora i nazionalisti arabi, suddivisi in varie correnti, anch’essi con un certo seguito nel ceto medio cittadino. Per finire con un filone democratico-liberale, minoritario, ma che però si presenta con dei leaders significativi.

Purtroppo gli Stati Uniti, che pure tanto si richiamano ai valori democratico-liberali, non hanno pensato a fondare su questi uomini la ripresa dell’Iraq e si sono affidati, per garantirsi affidabilità e sicurezza, a personaggi molto compromessi col passato regime. E’ un vecchio vizio, questo. Se ripercorriamo la storia irakena, vediamo che quando arrivarono gli inglesi, dopo la prima guerra mondiale, successe la stessa cosa: a governare il paese, insieme alla potenza coloniale, furono i generali sconfitti dell’esercito ottomano, escludendo una componente democratica che nel paese aveva una forte diffusione. Anche agli americani interessa anzitutto una stabilità politica che si instauri in tempi brevi e che ovviamente garantisca i loro interessi. E chi può dare queste garanzie meglio di chi finora è stato al potere? Dunque, i signori della guerra curdi e gli ex collaboratori di Saddam. Del resto, curdi ed ex del regime dispongono di un loro blocco sociale, hanno un certo consenso, per quanto minoritario. Resta il fatto che due terzi degli irakeni non si riconoscono in loro. E qui nasce il problema della democrazia: come far partecipare alla vita politica la maggioranza del paese? Gli Stati Uniti, come potenza vincitrice, hanno delle priorità che possono non coincidere con gli interessi della popolazione, che voleva sì liberarsi di Saddam Hussein, ma per ricercare un modello più consono alla propria storia, alle proprie esigenze. Questa ricerca, evidentemente, richiede del tempo, ma l’America non intende aspettare".

In ogni caso, un governo provvisorio è immediatamente necessario. Dovunque si è avuto il crollo di un regime dittatoriale, si è riesumata una parte almeno dell’apparato statale.

"Un conto è mantenere in piedi l’apparato e gli uomini dell’amministrazione; un’altra cosa è servirsi di persone pesantemente compromesse, provenienti, ad esempio, dall’apparato della sicurezza e dunque responsabili della repressione. Anche gli inglesi dicevano di portare civiltà e democrazia, ma quando queste belle cose cozzavano con i loro interessi, hanno privilegiato gli interessi. Civiltà e democrazia, per gli irakeni, significano indipendenza, sviluppo, salvaguardia del benessere, dei valori, della cultura della popolazione. Tutto ciò potrà andare d’accordo con le priorità americane, che sono diverse?".

Ma l’instabilità, l’anarchia che è esplosa appena il regime è crollato - vedi il fenomeno dei saccheggi - non indica forse che i movimenti, i partiti di cui parlavi non hanno una organizzazione, un seguito sufficienti? In Italia, alla fine della seconda guerra mondiale, non avvennero, se non molto sporadicamente, degli episodi di quel tipo, e questo perché esisteva una forza organizzata, il CLN, in grado di tenere in pugno la situazione.

"Nel lungo e feroce periodo del regime di Saddam, la società civile, soprattutto a Baghdad, è stata pesantemente indebolita, devastata da ogni punto di vista: etico, psicologico, organizzativo. C’è poi da dire che i saccheggi sono stati, per lo più, opera di una minoranza ben organizzata e che ha agito in maniera premeditata, soprattutto nel caso dei furti più clamorosi - al museo e alla biblioteca. Avevano elenchi di documenti e reperti particolarmente preziosi, e sapevano dove cercarli. A questo si è aggiunto il totale disinteresse, l’inazione dell’esercito americano, che ha sistemato un carro armato per difendere il ministero del petrolio ed ha trascurato tutto il resto. In questa situazione è stato fondamentale il ruolo delle moschee, unica istituzione ancora funzionante, sia per arginare il fenomeno dei saccheggi, sia per il recupero di una parte almeno della refurtiva; con prediche e sentenze religiose che condannavano i furti e la compravendita di oggetti rubati e incitavano a restituire il maltolto".

Quanto è religiosa la società irakena?

"Premettiamo che laico non è sinonimo di moderno, democratico: anche Saddam era laico... E ugualmente è scorretto far coincidere religione con oscurantismo e repressione. Chiarito questo, ricordo che dalla caduta dell’impero ottomano fino ad oggi l’Irak è stato governato da élite secolarizzate, che non solo hanno sempre tenuto ben distinte politica e religione, ma che a volte hanno emarginato anche brutalmente la componente religiosa; una pratica che ha trovato il suo punto più alto proprio con Saddam. Giorni fa, uno studioso americano, che credo sia consulente della Casa Bianca per i temi legati all’Islam, ha detto che una delle poche cose buone fatte da Saddam è stata l’aver represso i movimenti islamici. Io non credo che sia bene reprimere: in una società dev’esserci dialettica . L’Iraq è un paese molto articolato, pluralista, con un passato culturale cosmopolita e prestigioso. Mi dispiace sentire ancor oggi certi approcci, di tipo antropologico ottocentesco e razzista, che definiscono gli altri semplicemente in termini confessionali o tribali, quasi che un popolo si riconosca solo in queste simbologie emotive più che razionali. Nessuno in Iraq si scandalizza perché ci sono dei cristiani, o perché un curdo parla la propria lingua. E’ una società plurale che purtroppo, nella costruzione dello Stato moderno, si è impostata secondo un modello centralistico che non rispetta questa pluralità. E’ un fenomeno avvenuto in diversi paesi, dove una sedicente modernità ha finito per limitare la vera democrazia".

Un’ultima questione. Le motivazioni addotte da Bush per giustificare la guerra erano sostanzialmente due: la presenza di armi di distruzione di massa e i legami coi terroristi di Al Qaeda. Ora, mentre erano indubbi i legami del regime col terrorismo palestinese, in una visione di solidarietà con un popolo arabo che lotta per l’indipendenza, quelli con Bin Laden appaiono meno plausibili, per l’evidente differenza culturale fra un’organizzazione fondamentalista e un regime dispotico ma laico. Cosa puoi dire al riguardo?

"Il partito Baath, fin dalla sua nascita negli anni ’40, è stato sempre in aperto contrasto - per ragioni culturali - con i movimenti islamici, moderati o radicali che fossero. E’ difficile pensare che il regime di Saddam abbia avuto rapporti addirittura col filone di Bin Laden, che rappresenta l’ala estrema dell’islamismo. La motivazione addotta da Bush per la guerra è pura propaganda per legittimare l’intervento. I movimenti religiosi, anzi, vedevano favorevolmente la caduta di Saddam, che veniva considerato, come altri leader arabi, non solo un tiranno, ma anche un agente dell’imperialismo. E in effetti Saddam ha governato a lungo in sintonia con gli interessi dell’Occidente.

Sulle armi , non saprei che dire, non sono un esperto in materia. Sappiamo che le aveva, che gliele avevano vendute; e che finora non sono state trovate...".