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QT n. 7, luglio 2020 Trentagiorni

Pruner-Kaswalder: la vergogna e la manfrina

Una vicenda che va molto al di là di un semplice rapporto di lavoro concluso

Kaswalder

Il Presidente del Consiglio Provinciale, la massima carica che nell’Autonomia deve garantire tutti i cittadini, si mette sotto i piedi i diritti costituzionali di un lavoratore. Questo il senso del procedimento che ha opposto il presidente Walter Kaswalder e il suo segretario Walter Pruner, e che poi è divenuto un caso politico, coinvolgendo partiti e istituzioni.

Per capire la gravità dei fatti, chiariamone le dinamiche. Kaswalder, come Presidente, assume Pruner come segretario. Da notarsi che Kaswalder, già presidente del Patt, ne era stato espulso nel 2017 dando vita a una formazione politica tutta sua: Autonomisti Popolari.

Pruner viene dallo stesso mondo, è figlio di quell’Enrico Pruner fondatore del Patt con cui conserva rapporti; persona sveglia e di buona cultura, è una vita che lavora presso i gruppi consiliari autonomisti, supportando nei loro compiti consiglieri provinciali più ruspanti e meno addentro nelle dinamiche istituzionali. Tra i due Walter qualcosa si rompe: forse Pruner ha dato qualche consiglio non troppo gradito sulla maniera, disinvolta e poco super partes, con cui il Presidente interpreta il suo ruolo; più probabilmente Kaswalder coltiva un profondo astio da ex verso il suo vecchio partito, e mal sopporta che il suo segretario invece coltivi ancora rapporti con quel mondo. Sta di fatto che Kaswalder licenzia in tronco Pruner, mettendolo di fatto su una strada. E ne fornisce pubblicamente anche la motivazione in un’intervista a L’Adige: Pruner è reo di aver assistito (di domenica, nel suo tempo libero) al congresso del Patt.

La cosa è vergognosa: il presidente dell’Autonomia licenzia un dipendente per la sua partecipazione – per di più passiva – a un evento politico. Difatti Pruner ricorre in Tribunale e il giudice del lavoro Giorgio Flaim stigmatizza il comportamento di Kaswalder come “illecito in quanto diretto a impedire o comunque a limitare l’esercizio della libertà personale” e lo condanna al risarcimento degli stipendi non corrisposti, dal licenziamento fino a fine legislatura, per una somma di 230.000 euro.

Tutto bene, tutto chiaro? Un bel niente. Perché a dover pagare non dovrà essere Kaswalder, bensì il Consiglio provinciale.

E qui c’è un discorso tutto politico, che si fa più complesso e anche più grave. Che coinvolge in varie maniere le forze politiche. Sì, perché a supportare giudiziariamente Kaswalder, quindi a ribadire che è giusto limitare le libertà di un lavoratore, e a mettersi contro di lui, è stato lo stesso Consiglio provinciale. La cosa è enorme.

Le responsabilità stanno anzitutto in capo alla maggioranza, che ripetutamente ha sentenziato che il rapporto Presidente-segretario è un rapporto “di fiducia”, e quindi è legittimo il licenziamento quando la fiducia non c’è più.

Ma il discorso sulla fiducia tradita viene sbugiardato dal giudice: Kaswalder non ha portato alcuna prova, alcun elemento, a favore di questa tesi, c’è “una totale mancanza di circostanze idonee ad attribuire una, anche solo minima, concretizzazione all’asserito venir meno del rapporto fiduciario”. Insomma, siamo nel campo dell’arbitrio. Un datore di lavoro – e ancor più il rappresentante di un’istituzione – non può quando si sveglia male la mattina licenziare su due piedi un lavoratore, asserendo che non c’è più fiducia. Deve – afferma la giurisprudenza, e conferma il giudice - portare qualche motivazione.

Il lavoratore ha una sua dignità, non è un burattino.

Su questo, i consiglieri di minoranza sono duri: “È una violazione del diritto costituzionale” afferma Paolo Ghezzi, di Futura.

È scandaloso che la maggioranza continui su questo a supportare Kaswalder” afferma Sara Ferrari, capogruppo del Pd.

In effetti è clamoroso che un partito come la Lega, che dall’opposizione era sempre con i gazebo in piazza a favore degli operai, ora si schieri con posizioni da padrone delle ferriere. Evidentemente Kaswalder, presidente del Consiglio sempre di parte, costantemente schierato con la maggioranza, torna talmente comodo con la sua gestione dell’aula, dei tempi, delle commissioni, che Fugatti e soci, pur di preservarlo in quell’utile carica, mettono in soffitta i diritti fondamentali. Sperando che nessuno se ne accorga.

E purtroppo questa speranza ha dei fondamenti. I sindacati non si sono particolarmente stracciati le vesti (la sorte di un segretario non sembra interessare molto). Ma soprattutto le opposizioni hanno pasticciato.

Infatti a decidere che il Consiglio provinciale in quanto tale avrebbe sostenuto Kaswalder contro Pruner era stato l’Ufficio di Presidenza, dove le minoranze sono (scusate il gioco di parole) in maggioranza, tre contro due. Solo che, il giorno della votazione Olivi del Pd e Dallapiccola del Patt non si erano fatti vedere, e Degasperi dei 5 Stelle oggi Onda, si era astenuto (“I legali ci avevano detto che non avevamo alternative; e poi allora non si poteva prevedere l’esito del giudizio” si giustifica).

Così il Consiglio sosteneva Kaswalder.

Ma non finisce qui. Da dove far saltare fuori i soldi da dare a Pruner? Da un assestamento del bilancio del Consiglio, da cui avanzano 2 milioni che dovrebbero andare a sostenere le famiglie disagiate.

La maggioranza vuole togliere 220.000 euro da questo capitolo, noi no, anche per scindere le nostre responsabilità da quelle di chi sostiene Kaswalder” afferma Degasperi, che vorrebbe far pagare i soldi non al Consiglio, ma alla Giunta.

C’è però chi sostiene una linea più radicale: costringere Kaswalder alle dimissioni. Anche perché adesso ci sarà il ricorso in appello, e ci mancherebbe che il Consiglio sostenesse ancora Kaswalder contro Pruner, cercasse cioè di ribadire che un segretario non può godere dei diritti costituzionali. Una cosa inaccettabile. Da qui, le necessarie dimissioni: Kaswalder, già pesantemente attaccato per le sue parzialità non deve essere più presidente. Ma lui non vuole dimettersi. E allora?

Mentre stiamo scrivendo si sta discutendo una mozione di sfiducia, molto dura, contro di lui. È facile prevederne l’esito: la maggioranza la boccerà.

C’è una seconda soluzione: i consiglieri di minoranza (Degasperi, Olivi, Dallapiccola) si dimettono loro dall’Ufficio di presidenza. Così decade l’Ufficio, e con lui anche il presidente. Ma i tre, sono disposti a dimettersi? Per aver sostenuto a spada tratta questa soluzione Giorgio Tonini ci ha rimesso il posto di capogruppo Pd.

Noi chiediamo: si andrà avanti ancora con questa manfrina vergognosa? E la domanda la poniamo ai tre consiglieri e ai loro partiti.