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QT n. 4, 24 febbraio 2001 Servizi

Il vino che verrà

Vino trentino: si puntava - al di là delle belle parole - sulla quantità, ora si passa alla qualità. Lo scontro tra le grandi cooperative e i piccoli produttori; e il ruolo - deciso e positivo - assunto da Dellai.

C’era un’aria di festa alla fine del convegno, una soddisfazione contagiosa: volti distesi, soddisfatti. Al buffet che chiudeva la manifestazione, quasi tutti si sentivano vincitori; e gli altri facevano finta di esserlo. L’operazione, la mission impossible, sembrava pienamente riuscita: riunificare il rissoso mondo della vinificazione trentina e fargli compiere una decisa virata, passando da una politica produttiva incentrata (nei fatti, non nelle parole) sulla quantità, ad una incentrata, ma per davvero, sulla qualità.

Erano stati in tanti a denunciare la situazione attuale. Dure e crude le parole del prof. Attilio Scienza, docente all’Università di Milano, uno dei massimi agronomi italiani. Il Cile, l’Argentina, il Sud Africa, l’Australia, ecc., ogni anno impiantano migliaia e migliaia di ettari di nuovi vigneti; e non è proprio il caso di fare i gradassi, con atteggiamenti di superiorità, tipo "chi ha paura del Cile?": dietro ci sono infatti le multinazionali americane, che controllano la distribuzione mondiale e nel vino dei nuovi paesi stanno investendo migliaia di miliardi.

La risposta dell’Europa, guidata dalla Francia che nel campo fa scuola, è incentrata sulla qualità. Il vino come emozione, come mito. Senza rincorrere gli estremi delle bottiglie quotate nella Wine Gallery (dove si raggiunge e supera il milione di lire a bottiglia), occorre operare con chiarezza in un mercato che si sta dividendo in due segmenti: i vini d’élite e quelli della grande distribuzione.

"Il problema è l’appartenenza a uno o all’altro segmento del mercato; non si può dare al consumatore un’immagine ambigua, pretendendo con lo stesso marchio di coprire sia le bottiglie da 4.000 lire, che quelle da 40.000" - afferma Scienza.

E il problema del Trentino è proprio questo (e non solo nel vino): chiacchiera tanto di qualità, ma poi pretende, nelle sue espressioni maggioritarie (le grandi cantine cooperative), di vincere la battaglia sul mercato globale, giocando sull’equivoco. Per cui, per esempio, la Cavit imbottiglia vino veneto sotto le etichette Vino delle Dolomiti o delle Tre Venezie.

"In tale scenario - afferma Scienza - queste cantine hanno continua necessità di crescita, non fanno più una politica di territorio, sono costrette a importare vini e uve."

Il fatto è che questa politica incide su tutto il sistema. Punto emblematico è quello delle "rese per ettaro", ossia la massima quantità di produzione ammessa (in quintali di uva per ettaro). E’ una questione facilmente comprensibile anche al profano: la vite può produrre più o meno uva a seconda di come viene potata: con una potatura corta produrrà cinque grappoli, con una lunga venti. Ma l’apparato radicale, la linfa è la stessa, e i cinque grappoli avranno gusto e sapore molto più accentuato dei venti. Questo è un dato acclarato, e in tutta Italia, dove si vuol fare vino di qualità, c’è una resa massima di 70-80 quintali per ettaro; in Trentino invece, sotto la spinta delle grandi cantine, la resa ammessa è di 170 quintali, che poi, grazie a deroghe, arriva ad oltre 200. Questo è un dato imposto al sistema dal prevalere delle grandi cooperative: il padre-padrone della Cantina di MezzaCorona, Fabio Rizzoli, è l’unica persona al mondo a sostenere che "la qualità è indipendente dalla resa", e su tale principio è uniformata l’intera produzione trentina.

Fabio Rizzoli, padre-padrone della Cantina di MezzaCorona: il principale sostenitore - nei fatti - della politica della quantità.

Con la conseguenza che "la produzione trentina è scialba" - scrive Luciano Di Lello, esperto di viti-enologia di Repubblica.

"La parola Trentino non comunica più niente" - constata Marco Zani, albergatore e vinificatore.

"In questa situazione, perchè dovrei tenere il marchio Trentino Doc sulle mie bottiglie? - è stato il grido di dolore di Elisabetta Foradori, proprietaria di una piccola cantina di qualità - Perchè devo confondere il mio prodotto con altri di qualità inferiore?"

E quello delle rese è solo uno dei punti di frizione: c’è la piramide della qualità (marchi differenziati a seconda della qualità del prodotto) che non si riesce a costruire, c’è l’individuazione delle sottozone (aree particolarmente vocate che producono uve pregiate) che non parte mai; insomma, tutta una serie di provvedimenti tesi a differenziare ed esaltare il prodotto di qualità, che non vengono mai presi. Questo perchè la forza economica (e politica) delle grandi cantine cooperative monopolizza i momenti decisionali.

Come abbiamo già raccontato in passato, lo scontro tra i colossi cooperativi e le piccole cantine private (grosso modo, tra la quantità e la qualità) ha distrutto i tradizionali organismi rappresentativi, e si è risolto a favore delle prime, che hanno imposto la loro legge.

Non dobbiamo dimenticare che in Trentino abbiamo il reddito per ettaro maggiore d’Italia" - ha rivendicato, con comprensibile orgoglio, il presidente della Cavit Francesco Sartori. I successi dell’attuale management delle grandi cantine sono indubbi, e hanno portato a un benessere diffuso, a una crescita sociale: oggi il giovane contadino può rivendicare con orgoglio il suo status di "imprenditore agricolo".

Francesco Sartori, presidente del colosso Cavit. A parole si è detto d'accordo con il nuovo corso.

Ma questo successo, quanto può durare? "E’ vero, oggi abbiamo redditi alti - ha ribattuto Mauro Lunelli delle Cantine Ferrari - Ma non era così, alcuni anni fa anche per le mele che ora sono in crisi, con la Cina che sta per produrne 200 milioni di quintali, contro i 20 milioni di tutte le mele italiane, che non si riescono a smaltire?"

E difatti è proprio l’esempio della melicoltura, passata in poco tempo dalle stelle alle stalle, a rendere inquieti i viticoltori. E la stessa questione degli alti redditi: "Remuneriamo bene il nostro lavoro; il nostro territorio ci obbliga a un più alto numero di ore lavorative (500-600 per ettaro, cifre sproporzionate rispetto alla produttività delle pianure): come pensiamo mai - incalza Lunelli - di porci in concorrenza con chi impiega mano d’opera a bassissimo costo in zone più agevoli?"

Questa somma di considerazioni ha creato nei piccoli produttori un disagio sempre più acuto, fino alle prime prese di distanza dal sistema Trentino: è di questi giorni la costituzione di un’associazione formata da alcuni piccoli vinificatori di qualità (da Foradori a Pojer), preludio a possibili smottamenti del sistema. Ma se dalla Trento doc escono le cantine Ferrari e gli altri marchi più prestigiosi, cosa resta del nome Trentino? "Sarebbe una débacle per l’intero sistema, anzi per l’insieme del Trentino. Anche peggio di scandali tipo i piccoli frutti" - ci dice il prof. Scienza.

Mauro Lunelli, delle Cantine Ferrari.

Forse è stata questa deriva che ha smosso la politica, nella persona dello stesso presidente Dellai. Di cui, come i lettori di QT ben sanno, noi non siamo degli estimatori; ma questa volta dobbiamo riconoscere che si è mosso con coraggio, competenza, capacità.

E’ stato infatti su sua iniziativa che è stato promosso il convegno "Insieme per la qualità" di cui stiamo parlando.

"Qualità Margherita" - si ironizzava in sala prima che iniziasse; ma poi lo svolgimento dei lavori ha messo tutti a tacere.

E così al momento delle conclusioni: quando Lorenzo Dellai ha posto sul tavolo alcuni spiegazzati foglietti di appunti, premettendo "Non ho specifiche consocenze tecniche", ci si aspettava una sfilza di banalità, il colpo al cerchio e quello alla botte. E invece no: "Io non avrei potuto essere più chiaro e preciso" - ci ha detto ammirato un vinificatore, poco prima molto scettico.

Infatti Dellai affrontava tutti i nodi, e dava risposte prudenti, ma inequivoche. Questi devono essere intesi come "gli Stati generali del vino trentino", da ora in poi si cambia, con la partecipazione di tutti alla definizione di una nuova strategia del settore. Cooperazione e piccoli produttori hanno grandi meriti storici, dovranno costituire nel sistema trentino due sottosistemi, che convivano e definiscano una politica unitaria: con una percentuale della produzione orientata alla grande distribuzione, e un’altra (il 20-25%) orientata alla produzione di qualità, che crea immagine per tutto il sistema e per il territorio.

Perché non sembrassero parole al vento, Dellai entrava nel merito delle scelte tecniche: costruzione della piramide della qualità, abbassamento graduale delle rese per ettaro, regole e controlli più stringenti, individuazione delle sottozone. Insomma, tutto quello che in questi anni i piccoli produttori si sono visti brutalmente negare dallo strapotere dei colossi cooperativi.

E questi come hanno risposto?

Si sono acquattati, in attesa che la buriana passi. Francesco Sartori, presidente di Cavit e politicante della Cooperazione, si è detto d’accordo con il nuovo corso; "Ma figuriamoci, non c’è da fidarsi" - era il commento generale. Il più sanguigno Fabio Rizzoli, patron della Cantina Mezzacorona, ha scelto di fare la gattamorta: pur consigliere delegato della "sua" cantina, si è presentato come "un pensionato", ed ha proposto per l’ente pubblico un ruolo di mero elargitore di soldi per promuovere "l’immagine del Trentino di qualità". ("La qualità, prima di promuoverla, bisogna farla" - è stato il commento di Lunelli).

Eora? Si vedrà l’impegno di Dellai, che di fatto ha emarginato l’assessore all’agricoltura, Dario Pallaoro, pallido terminale in Provincia della Cooperazione, che sulla questione del vino ha lasciato che le cose andassero avanti per conto loro, con l’affermarsi dello strapotere dei più forti. (E di questa inazione aveva già dato prova nel settore mele, di cui era responsabile da dirigente della Provincia, quando aveva sposato la poco lungimirante monocoltura delle golden delicious).

Che si tratti di una piccola rivoluzione nell’agricoltura trentina lo rivelano altri fatti. La clamorosa assenza, tra i relatori del convegno, della Trentino Vini, associazione costituita sulle ceneri dell’Istituto del Vino, e che è risultata uno strumento di parte - dominato dalle grandi cooperative - e inefficace. E altrettanto vistosa l’inconsistenza della presenza dell’Istituto Agrario di San Michele. Quando un giornalista, in un approssimativo intervento, ha avanzato illazioni sull’attività dell’Istituto, a difenderne il buon nome non è intervenuto l’attuale presidente, pur presente al tavolo, ma il prof. Scienza, già direttore proprio a San Michele quando questo era un gioiello invidiatoci in tutta Europa. E sarà proprio Scienza, non l’attuale evanescente dirigenza di San Michele, il referente scientifico del nuovo corso del vino trentino.

Insomma, Dellai si è assunto l’onere di far cambiare rotta all’intero sistema. Sul perché lo faccia, ci possono essere anche interpretazioni dietrologiche, tipo l’accreditarsi presso la famiglia Lunelli.

Non ci sembra un metodo corretto di interpretare l’azione di governo. Dellai lo abbiamo visto promuovere affarismi, clientele, sottopoteri personali, e per tutto questo lo abbiamo ferocemente criticato. Qui lo vediamo impegnato a far cambiare rotta al grande galeone della vinificazione trentina. Far cambiare rotta ai galeoni, anche quando veleggiano verso gli scogli, non è semplice: a Dellai, in questo caso, tanti auguri.