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Lettera da Gaza

Quilombo Trentino

Il Quilombo Trentino, gruppo locale di supporto dell’Operazione Colomba, informa che continua la presenza all’interno dei Territori Occupati di volontari che vivendo nelle zone più calde sono testimoni quotidiani della situazione gravissima in cui sono costretti uomini, donne e bambini. La presenza, oltre che supportare chi è vittima dell’esercito israeliano, sostiene anche chi in Israele si oppone alla logica della violenza. Tre volontari trentini, Lorenzo Campedelli, Stefano Romiti e Fabrizio Bettini sono ancora nella Striscia di Gaza e sono ancora loro ad inviare queste drammatiche testimonianze.

Siamo appena arrivati a casa a Qarara e sono subito corso qui per raccontarvi dei due giorni passati a Gaza. Stamattina eravamo a Jabalia, il più grande fra i 4 campi profughi della striscia. Occupa la parte a nord-ovest di Gaza e ci abitano 96.000 persone, la stragrande maggioranza famiglie di profughi fin dal 1948. Si cammina per vicoli molto stretti, cosparsi di immondizia. A destra come a sinistra, i muri delle case-baracca. Solo ogni tanto si sbuca in vie più larghe. Qualche giorno prima suor S. ci aveva raccontato che gli israeliani parecchi anni fa avevano voluto quelle strade affinché ci potessero passare i carri armati. Per ottenerle avevano demolito due file di case. Ma questa è storia vecchia. Quel che si vede oggi è l’inferno compresso, concentrato. Pochi chilometri quadri che ospitano tante vite differenti. Le viuzze malsane sulle quali camminiamo pullulano di bambini. Ce ne sono ovunque, seduti a giocare sulla sporcizia. Sono soli o in piccole bande. Biondi o mori, sono l’emblema di questa terra, crogiuolo di razze e punto eletto dalla sofferenza umana. Mi tornano in mente le parole di H., responsabile di una Ong che lavora con i bambini: "Nella striscia di Gaza, un rettangolo di 360 kmq., abitano un milione e duecentomila persone ed il 51% sono bambini". Ed eccoli i bimbi, li ho ancora davanti agli occhi. Sono un tumulto di immagini nitide. Una bambina bellissima e bionda ci guarda. Gli occhioni scuri sono zeppi d‘odio mentre strappa con i denti pezzi d’un sacchetto di nylon per poi masticarli un poco e sputarli a terra.

Siamo in una casa. La famiglia è molto povera, undici persone vivono in due miserabili stanze e in un cortiletto coperto da lamiere arrugginite. Qualcosa si muove nella penombra della stanza che mi sta di fronte. E‘ un piccino che avrà dieci mesi, e che gattona verso di noi. Ci guarda. Ha i capelli ricci, non si capisce se per lo sporco o se perché madre natura ha voluto così. Sua sorella tiene le spalle appoggiate all‘uscio per impedire alla nuvola di ragazzini che ci ronza attorno in strada di invadere casa. Ci guarda come se volesse dire: "Guardate cosa mi tocca fare per colpa vostra". Incrociamo in una delle strade più larghe una banda di mocciosi che scaglia sassi contro un edificio. E’ una scuola. Non capiamo perché lo facciano, ma si legge nei loro volti tutta la cattiveria di cui è capace un bambino maltrattato, lasciato a se stesso. Un tipino magro esce dalla marmaglia che ci accompagna, mi prende per mano e comincia a parlarmi veloce in arabo. Il nostro accompagnatore lo scaccia, probabilmente mi stava sfottendo. Dopo un po’ si riavvicina. E’ vivacissimo, incontenibile. Stavolta lo prendo di sorpresa: lo prendo per la mano e inizio a parlare veloce in italiano. Non capisce, ma si diverte e non ci dà problemi. Poi si sale su un taxi e tutti i piccini ci corrono dietro. Il mio amico lingualesta è il primo del gruppo. Sono quasi orgoglioso!

I bambini sono il futuro, qui come in Italia. Ma da queste parti la parola futuro ha un suono sinistro. L’occupazione sta creando enormi problemi, non ultimo il fatto che l’economia non gira. Israele controlla le principali risorse della striscia. Il risultato è la miseria. Così i bambini crescono in un ambiente, fisicamente come psicologicamente e socialmente, non adatto a loro. Un ambiente che più che favorire uno sviluppo decente lo arresta. O meglio lo indirizza verso comportamenti atti alla sopravvivenza. Comportamenti, atteggiamenti mentali, di violenza. Può avere una possibilità con queste premesse la democrazia? Può esistere l’altro? Potranno conoscere queste vite la gioia, una qualche forma di felicità?

Quando incontriamo S. gli racconto di quanto in Italia si giochi sull’accusa che chi critica Israele e le azioni del suo esercito sia antisemita. Gli racconto anche di quando siamo stati definiti antisemiti per aver criticato duramente l’azione del 23 luglio dove un F16 ha lanciato una bomba di una tonnellata su di un quartiere popoloso di Gaza per colpire un solo membro di Hamas. Lui, ebreo, mi guarda e mi chiede se ho detto alla persona che ci ha così definiti che ebrei e arabi sono entrambi di origine semitica. Mi piace questo ragazzo e ci conforta pensare a lui e a quelli come lui nelle notti isolate di Gaza. Da Gaza Israele ha il volto di soldati che entrano nelle case e portano via gli uomini, ha il suono sinistro dei cingoli dei carri armati o il rombo degli elicotteri Apache. Delle volte assume anche un ronzio sordo ma continuo: l’aereo spia.

Incontriamo S. a Gerusalemme e ci propone di partecipare ad un’azione di attacchinaggio di manifesti anti-occupazione. Il giorno dopo, all’ora stabilita, siamo al punto di ritrovo. E’ notte, molti ragazzi simili a quelli italiani si muovono per le strade alla ricerca di divertimento anche a Gerusalemme ovest. Finché non compaiono scope, colla, manifesti rimaniamo mimetizzati tra i ragazzi. Il gruppo degli attivisti israeliani è eterogeneo, ci sono giovani e signori con i capelli bianchi, ci sono pacifisti, e ci sono quelli di Yesh Gvul che accettano l’esercito ma non nei territori occupati. Ci dividiamo in gruppi: io e L. capitiamo insieme a S. e altri due ragazzi con i quali avevamo in precedenza giocato a freesbe per ingannare l’attesa. Il primo manifesto viene attaccato su un pilastro di cemento, poi raggiungiamo Rabin Road dove c’è un cantiere edile recintato con pannelli di lamiera. Incominciamo a tappezzare il recinto con i nostri manifesti che dicono: "deportazione=razzismo"; altri gruppi ne hanno altri con uno slogan tipo: "Liberiamo Israele dall’occupazione". Per me la difficoltà, nell’azione, sta nel capire qual è il dritto e il rovescio, visto che il tutto è scritto in ebraico. E’ bello fare questa cosa assieme a questi ragazzi, ci fa sentire un po’ meno soli e penso che anche loro provino una cosa simile. Velocemente quasi cento metri del recinto sono coperti da manifesti. Le macchine passano sulla strada, qualche urlo nella nostra direzione ma niente più; passa anche un poliziotto in scooter ma ci ignora. Ci accaniamo particolarmente per coprire dei manifesti messi dalla destra israeliana che dicono: "La deportazione è una forma di difesa; la Giordania è lo stato dei palestinesi". Sento la foga e la gioia delle cose giuste anche se stiamo solo attaccando manifesti. A un certo punto, però, si ferma una volante della polizia, scende un agente che incomincia a parlare con S., gli chiede i documenti e lui e gli altri dissimulano il fatto che siamo attivisti italiani, dicendo che siamo ebrei ma non sappiamo l’ebraico. Il poliziotto se ne va, ma pare abbia detto che quanto stavamo facendo era "una provocazione criminale", e io penso suonasse un po’come una minaccia. Io e L. temiamo l’arrivo di altra polizia, non vogliamo che prendano i nostri nomi, potrebbe procurarci dei problemi al rientro in Italia, un’espulsione non ce la possiamo permettere. E’ sempre dura ragionare in questi termini, perché io amo la verità e anche quando entravo nella non democratica Yugoslavia diretto nel Kossovo dove avevo amici albanesi, non ho mai mentito sul fatto che fossi membro di un’organizzazione pacifista. Qui devi dissimulare di fronte alla polizia, devi dire che sei un turista, perché, probabilmente, quello che vediamo, in Israele e in Palestina, non piace alla politica di Sharon. Guardiamo i nostri amici e capiamo che per "proteggere" noi si limiterebbero nell’attacchinaggio, così rinunciamo. E’ triste lasciarli soli con la colla e lo scopettone in mano, non perché la nostra presenza fosse necessaria ma perché loro sono i "giusti di Israele", gente che ha capito che quello che succede nei territori da molti anni non è difesa ma attacco. E’ amaro allontanarsi, ma è bello sapere che in Israele c’è molta gente che sa la verità e si oppone a Sharon e alla guerra. Il giorno successivo, in viaggio verso Gaza, vediamo dei cavalcavia tappezzati di manifesti: "Deportazione=razzismo!", "Liberiamo Israele dall’occupazione!"