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La melina sul mandato d’arresto europeo

Entrerà in vigore a fine anno, ma l’Italia non l’ha ancora ratificato - Il "legittimo sospetto" ricondotto a ragionevolezza - La legittimazione dell'uso spericolato delle armi da parte delle forze dell'ordine.

L’Unione Europea aveva deciso il "mandato di arresto europeo" il 7 agosto 2002, destinato a trovare attuazione presso gli Stati membri entro il 31 dicembre 2003. A partire dal 1° gennaio 2004 cesseranno di avere applicazione le varie convenzioni europee in materia di estradizione, per essere sostituite da congegni più snelli concernenti la cattura e la consegna delle persone ricercate dall’uno o dall’altro degli stessi Stati. Ai sempre più frequenti collegamenti transnazionali dei fenomeni criminali è necessario contrapporre procedure più veloci per contrastare più efficacemente la delinquenza organizzata. Va ricordato a questo proposito che l’Europa non è solo l’euro ma anche, ormai, la Costituzione europea e lo spazio giudiziario europeo, di libertà, di giustizia e di sicurezza. Purtroppo è anche l’Europa della criminalità organizzata, tecnologicamente avanzata e soprattutto veloce nei suoi spostamenti. Oggi per un crimine preparato in Polonia e realizzato in Italia occorre attendere i tempi lunghi dell’estradizione per avere in manette gli ideatori responsabili e processarli insieme agli esecutori. Con il mandato di arresto europeo la cosa sarebbe quasi istantanea.

Occorre anche in Italia adottare le misure necessarie per conformare il nostro sistema giudiziario alla nuova disciplina introdotta a livello europeo, che non presuppongono - vale la pena sottolinearlo - alcuna modifica costituzionale. Ciò significa che l’iter parlamentare di approvazione dovrebbe essere relativamente breve. A metà settembre il ministro Castelli aveva annunciato con una certa solennità che entro il 31 dicembre 2003, termine prefissato dalla U.E., sarebbe stata approvata la legge ordinaria necessaria per rendere operativo anche in Italia il mandato di arresto europeo. Siamo ormai a ottobre e il relativo disegno di legge non è ancora stato presentato. Ritardo allarmante, data la complessità della materia, che si può anzi configurare come una vera e propria inadempienza dell’Italia proprio durante il semestre di Presidenza italiana della U.E. Chi ha paura dei giudici europei?

Dopo il 31 dicembre 2003 un mandato di arresto europeo emesso da un giudice spagnolo non avrà effetto in Italia. C’è chi ha dichiarato: "Per fare il magistrato devi essere mentalmente disturbato, devi avere delle turbe psichiche. Se fanno il magistrato è perché sono antropologicamente diversi dal resto della razza umana". Se ciò vale per i giudici d’Italia, patria del diritto, chissà cosa si potrebbe dire dei giudici spagnoli, francesi o tedeschi. A meno che non ci sia una spiegazione più semplice: c’è qualcuno molto potente in Italia che teme le iniziative del giudice spagnolo Garzòn.

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Due recenti sentenze, una delle Sezioni Unite della Cassazione, l’altra della Corte europea dei diritti dell’uomo, hanno stabilito che: l. per ricusare il giudice occorrono elementi oggettivi; 2. il "legittimo sospetto" di parzialità non fa eccezione alla regola; 3. Le decisioni endogene al processo sono inidonee a giustificare sia la ricusazione che il legittimo sospetto. La prima riguardava il Tribunale di Milano nei processi in corso contro Berlusconi, Previti e soci; l’altra era stata provocata da un ricorso di Dell’Utri. La Cassazione ha ritenuto di confermare la giurisprudenza sul legittimo sospetto, affermando che vi deve essere un nesso tra una situazione radicata nel territorio, empiricamente verificabile, grave e univoca, e gli effetti pregiudizievoli sull’imparzialità non del singolo giudice, ma dell’intero ufficio giudiziario, con esclusione di ogni rilevanza delle vicende endoprocessuali (eventuali errori di diritto involontariamente compiuti). La Corte europea a sua volta ha ritenuto irricevibile, per manifesta infondatezza la richiesta di Dell’Utri, osservando da un lato che la valutazione dell’imparzialità non può prescindere da un accertamento oggettivo; in secondo luogo che da eventuali errori di diritto commessi dal giudice non può farsi derivare automaticamente la prova della parzialità del giudice.

Non c’è dubbio che la definizione di "legittimo sospetto" rischia di attribuire rilevanza a mere opinioni e congetture, finalizzate allo scopo di sottrarsi a un giudice sgradito. L’assenza infatti di ogni tipizzazione può rendere arbitraria la valutazione dell’organo che deve decidere.

Questo è un rischio potenzialmente eversivo dei valori della Costituzione. E’ proprio sulla base di tale consapevolezza che la Corte Costituzionale fin dalla sentenza n°50/63 aveva richiamato la necessità dell’oggettiva concretezza dei fattori perturbativi della obbiettività del giudizio.

Coincidenti sono le due ricordate sentenze quanto al significato da attribuire, ai fini della valutazione dell’imparzialità, ai provvedimenti endoprocessuali adottati dal giudice. La Corte europea ha escluso l’automatica correlazione tra errori di fatto o di diritto in cui sia incorso il giudice e l’affermazione della sua parzialità, richiedendosi la intenzionalità della condotta lesiva dei diritti dell’imputato.

Vanno dunque riviste autocriticamente le aspre censure rivolte ai critici dell’originaria formulazione dell’articolo 1 della legge 248/02 che rinunciava a qualsiasi collegamento tra la presunta turbativa e l’effetto pregiudizievole che ne sarebbe derivato.

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Un maresciallo dei Carabinieri nell’inseguire un’autovettura dopo una rapina in una banca aveva sparato con l’arma in dotazione e aveva ucciso uno dei rapinatori a bordo della macchina in fuga. A seguito di ciò era stato condannato a 4 mesi di reclusione per omicidio, in primo e in secondo grado, per eccesso nell’uso legittimo delle armi. La Corte di Cassazione (4a Sezione, 2 maggio 2003, n°20031) ha rovesciato il verdetto assolvendo l’imputato. La motivazione è stupefacente, perché richiama la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, secondo cui le forze dell’ordine possono legittimamente usare le armi per arrestare rapinatori in fuga, anche disarmati e, in generale, per compiere arresti o sventare evasioni.

Ciò è esatto, ma la Corte sbaglia nel ritenere che la Convenzione sia una norma comunitaria. Se lo fosse, la sentenza sarebbe corretta perché le norme comunitarie hanno efficacia obbligatoria per gli Stati membri. La Cassazione ha dimenticato che la Convenzione non costituisce una fonte comunitaria. Essa infatti fu firmata il 4 novembre 1950 dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa ed è da considerare una fonte pattizia.

La costante giurisprudenza della Cassazione non riconosce alle fonti pattizie il valore di norme di diritto internazionale e quindi nega una loro superiorità rispetto alle regole interne di ciascuno Stato. Rovesciando inopinatamente questa giurisprudenza, la Corte ha ritenuto immediatamente applicabile l’articolo 2 della Convenzione, e quindi ha motivato che l’uso delle armi deve considerarsi legittimo in ogni caso in cui si debba procedere ad un arresto, come nel caso del maresciallo dei Carabinieri che aveva esploso dei colpi per bloccare "la fuga dei rapinatori, assicurarli alla giustizia e recuperare il bottino". Secondo il magistrato Attilio Mari, da cui ho tratto spunto per questo articolo, "si tratta di una interpretazione dagli effetti potenzialmente deflagranti che non può essere condivisa" (Diritto e Giustizia, 24-V-03, n° 20, p. 19).

Non ha torto, anzi! In un paese come il nostro, in cui l’uso delle armi diventa sempre più spericolato, bisogna attenersi rigorosamente agli articoli del Codice penale: 52 (legittima difesa), 53 (necessità di respingere una violenza) e 54 (necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un grave danno alla persona non altrimenti evitabile). Se si allargano questi confini, si rischia di trasformare il Paese in un Far West.