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QT n. 7, 6 aprile 2002 Servizi

La scuola è formazione o addestramento?

Un’assemblea all’I.T.I. di Trento per discutere la riforma di Letizia Moratti

Cari studenti dell’Iti, ripenso all’assemblea d’istituto della settimana passata. Trecento giovani del triennio ascoltano, all’inizio, con attenzione, un dirigente d’impresa, la E-Pharma di Trento. Il dott. Andreatta dice cose sensate: tutti consideriamo importanti le competenze necessarie per lavorare in quell’azienda. La chimica, ovviamente, perché lì si producono farmaci. La lingua italiana, perché i clienti parlano in italiano. Poi le novità: un po’ d’inglese, che serve per commerciare con Sidney. E l’informatica: devi saper inserire il dischetto dentro il computer, ed eseguire il programma.

Ecco ciò che il mercato ci chiede, si accontenta di chiedere. Non devi inventare, basta "eseguire". Non serve la lingua di Dante e Leopardi, né quella di Shakespeare, per comprare e per vendere. "Impresa, Informatica, Inglese".Serve poco, tutto sommato, per addestrare all’impresa di oggi. Il documento che nella nostra scuola è stato sottoscritto, insieme, da 70 insegnanti, 45 non docenti, 218 studenti, invece, critica proprio la scuola che punta ad addestrare, e chiede una scuola impegnata a formare.

Intanto perché il mondo non sta tutto compresso dentro l’impresa. Il dott. Andreatta se n’è appena andato, applaudito, che il vicepreside chiede all’assemblea di commemorare il prof. Marco Biagi, assassinato da terroristi che non conosciamo, ma che certo in cima ai pensieri non hanno i lavoratori né gli studenti, né l’impresa che produce risorse, né la scuola investita da domande difficili. I ragazzi si alzano in piedi, in silenzio, per un minuto, a pensare. Venticinque anni fa, negli anni di piombo, ai tempi di Aldo Moro, di Guido Rossa, di Ezio Tarantelli, di Walter Tobagi, ci saremmo accapigliati in mille "distinguo", prima di deciderci per la manifestazione e lo sciopero.

Poi parlano due ragazzi in partenza per la Romania. Raccolgono materiale scolastico e denari da consegnare ad un orfanatrofio gestito da suore. Le domande dall’aula magna sono fitte e diffidenti. Ma è così povera la Romania? Chi siete, cattolici o laici? Non è che vi fate una bella vacanza? Non è uno spreco la spesa per il vostro viaggio, se l’intenzione è di aiutare i bambini rumeni? Nel silenzio e nella discussione sperimentiamo che il terrorismo e la solidarietà non sono problemi d’impresa, ma di politica ed etica. La scuola, doverosamente, non li considera estranei.

E poi, nell’impresa si può stare in tanti modi: essa non si esaurisce nelle tecniche di produzione, di consumo, di scambio, gli ordigni che un giovane vede quando vi entra per fare d’estate lo stage. Le aziende nascono, crescono, muoiono:questa è la storia. In azienda si è assunti, minacciati, licenziati: queste sono le regole sindacali, "l’articolo 18", il diritto che un governo vuol cancellare, e chi lavora è invece impegnato a difendere. Ancora economia, politica, storia.

La lingua italiana, e la scuola che è chiamata ad insegnarla, ha questo di potente, di ambiguo, di pericoloso. Serve per comprare e per vendere: e come faremmo, se la commessa mi consegnasse limoni, invece delle arance di cui oggi ho bisogno? Lemons invece di oranges? Zitronen invece di Orangen? La lingua, ma anche il numero e la misura, cioè la scienza, servono per far "funzionare" l’impresa e il mondo, così come sono, ma anche per criticarli, cambiarli, e "costruire" un mondo diverso. E’ questa la differenza fra addestrare e formare.

Quando tocca a me parlare dal tavolo, con il microfono in mano, sono un poco in ansia, perché non parlo da un pezzo a studenti così numerosi, e perché parecchi dei miei, per un disguido, se ne sono già andati, e quindi non vedo, nelle prime file, occhi noti a sostenermi.

"La scuola non è sempre esistita, come luogo collettivo, di istruzione e di formazione. Nelle società primitive l’educazione avveniva in famiglia, nel clan, nella tribù, ma i problemi non erano forse molto diversi da oggi. Il cucciolo era addestrato a raccogliere i sassi, a distinguere quelli adatti a scavare, a tagliare, a raschiare, a colpire, così come li trovava per terra. Quella era l’impresa, la tecnica cui far fronte. Ma qualcuno volle presto sapere perché un sasso tagliava e un altro raschiava: era la scienza. E qualcuno incise, sul fondo della caverna, il cervo e il bisonte, e sfregando due sassi li sentì risuonare: erano l’arte e la religione. Sfregandone altri, sprizzarono le prime scintille: con il fuoco cambiarono i rapporti fra l’uomo e la donna, i valori e le regole cui adeguarsi. E perché con la pietra appuntita spaccare la testa al diverso, se in altre tribù avevano sperimentato, invece della competizione, forme di collaborazione? Era la politica della guerra e della pace.

Il "ministro" d’allora pensava che istruire i cuccioli nelle tecniche note, dell’eseguire i lavori di scavo, di taglio, di raschiatura, poteva bastare. Ma altri, anche fra i cuccioli, pretesero che si dedicassero, la sera, più tempo e risorse, alle tecniche nuove, a ragionare di scienza, di etica, di politica, ad emozionarsi con l’arte, e la religione. Il ministro fu criticato e alla fine sostituito.

Ogni svolta nella storia degli uomini, dai sassi ai metalli, dalla polvere da sparo alla stampa, alla rivoluzione industriale, richiese, faticosamente, più cultura e più scuola. Agli inizi del Novecento in Italia gli analfabeti erano circa il 50%, in Inghilterra e in Germania erano già quasi scomparsi, in Spagna e in Russia si avvicinavano ancora al 70%. A me la "scelta" fra studio e lavoro fu imposta quando avevo 11 anni: il maestro, un giorno di gelo, chiese a noi, quaranta bambini di quinta elementare, quanti avrebbero proseguito gli studi. In cinque alzammo la mano, e da allora ci fermammo a scuola un’ora di più, per prepararci all’esame d’ammissione alle medie. L’analfabetismo di ritorno, di chi non comprende un breve testo scritto, la scarsa diffusione dei giornali, la dipendenza massiccia dalla televisione come mezzo di informazione, vengono nella società italiana da lì, da quei trentacinque bambini che poterono scegliere di continuare a scorrazzare in cortile.

Voi, che siete giovani di sedici, diciotto anni, alla mia stessa domanda avete risposto dopo la terza media, perché nel 1963 il Parlamento ha approvato una riforma che ha garantito ai bambini e alle bambine d’Italia tre anni di scuola media obbligatoria, uguale per tutti. E in gran maggioranza, voi e i vostri compagni, avete scelto di proseguire gli studi, al liceo, agli istituti tecnici o professionali. I ragazzi più giovani della nostra scuola, quelli del biennio, usufruiscono di una legge, approvata due anni fa, che prolunga l’obbligo a 15 anni, l’età alla quale, secondo il progetto dei "cicli" del precedente ministro Tullio De Mauro, si sarebbe dovuto concludere, per tutti, il biennio di scuola secondaria superiore.

La proposta della ministra Letizia Moratti, che impone di "scegliere" fra studio e lavoro alla fine della media inferiore ( a 14, a 13 anni?), è grave per questa ragione: interrompe un cammino della società italiana, faticoso e tardivo, che tendeva a garantire, a tutti, più cultura, e più scuola. E’ un ritorno all’indietro: è sufficiente, con il dischetto, saper "eseguire" il programma, come bastava, allora, con il sasso, saper scavare, tagliare, raschiare.

Sono due idee di scuola, e di società, che si confrontano e scontrano. Che dividono insegnanti e studenti, lavoratori e imprenditori.

La società industriale moderna, con la sua divisione del lavoro, ci pone una grande domanda: se l’individuo è costretto, per esigenze d’impresa, ad addestrarsi presto in un’unica direzione, o se può svilupparsi, a lungo, in più direzioni. Il progetto di Letizia Moratti rinuncia a concludere la scuola secondaria a diciott’anni, e l’università a ventuno (come si tende a fare nel resto d’Europa), tende ad abolire il valore legale del titolo di studio costituendo commissioni d’esame tutte interne alle scuole, privilegia la scuola privata rispetto a quella pubblica, affida al voto di condotta la capacità di motivare allo studio: sono le sue modalità di rispondere alla ‘grande domanda’.

‘A cosa serve una firma sotto un documento?’ - mi ha domandato l’altro giorno un ragazzo al tavolo della sottoscrizione.

Rispondo che dentro la nostra scuola è cresciuto il dibattito: questa assemblea nasce da lì. Qualche collega ha criticato la raccolta di firme nell’edificio scolastico. Qualche manifesto è stato strappato. Ho visto qualcuno, fra gli insegnanti e fra gli studenti, sottoscrivere perché "garantito" dal nome di qualcuno dei promotori. E qualcuno negare la propria firma per la ragione opposta: accanto al nome di quello, non scrivo anche il mio! Ho sentito un ragazzo criticare un compagno così: "Firmi anche tu, che lo scorso maggio hai votato per Berlusconi?"

L’accusato ha provato ad abbozzare una difesa lungo le scale, ma non ho potuto seguire il suo ragionamento. La maggioranza di coloro che io ho visto fermarsi a leggere il documento, non lo ha poi sottoscritto: non lo condivido, devo pensarci, non mi interessa - ho sentito ripetere. Anche questa è democrazia. Come il sottoporci le sue domande "sensate", quelle venute dall’impresa E-Pharma di Trento.

E’ ‘ragionevole’, realistico, il progetto di scuola di Moratti e Berlusconi: "Impresa, informatica, inglese" (‘Scavare, tagliare, raschiare’). Nessuna parola aspra, od estrema, come quelle di certi ministri. Non si grida che i magistrati di Milano vanno arrestati, né che la Rai è un covo di comunisti. Non si dichiara che gli immigrati sono pericolosi, e che sui clandestini è bene sparare, né che, come a Genova, chi dissente va represso nel sangue. Le manifestazioni, in piazza, non sono definite un germe di terrorismo.

Mai un brufolo, né un capello fuori posto, la ministra all’istruzione. Eppure la scuola non è un’isola, fa parte del continente, i problemi del mondo vi entrano tutti. Letizia Moratti è la compagna di banco di quegli altri ministri.

La destra ha vinto le elezioni, e quindi, si obietta, governa in nome della maggioranza dei cittadini che democraticamente l’ha eletta. La democrazia però non finisce il giorno del voto: anche questa assemblea è democrazia: chi sta attento e chi si distrae, chi applaude e chi fischia. Chi sottoscrive, e chi nega la firma a un documento.

C’è un filo rosso fra chi manifesta per il lavoro, contro il terrorismo, per l’indipendenza della magistratura, contro un’informazione televisiva ristretta in un’unica mano. Con chi chiede una scuola della formazione critica, contro una scuola dell’addestramento. E’ un argine di resistenza che possiamo erigere insieme".