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QT n. 16, 29 settembre 2007 Monitor

“La ragazza del lago”

Un giallo, dell'esordiente Andrea Molaioli, pienamente convincente: lineare, con personaggi ottimamente caratterizzati, ambientato un un'asettica provincia friulana, un mondo senza tempo, capace di pietà.

Chi è l’assassino? Lo scemo del villaggio? Il fidanzato? Il padre del bambino cui faceva da baby sitter? O lo stesso papà della ragazza trovata morta in riva al lago? "La ragazza del lago" è un giallo, e quindi deve prima di tutto rispondere a una domanda basilare: deve andare in cerca, in presenza di un cadavere, di un assassino.

L’indagine avviene in un’ambientazione montana, un piccolo villaggio che non si vede però in nessuna inquadratura larga. Se ne scorgono le vie, le case, alcune strade, e il luogo del delitto, il lago, che si presenta gelido, lontano da ogni partecipazione simpatetica ai drammi degli uomini.

Il regista, l’esordiente Andrea Molaioli, dà l’impressione di essersi messo a dirigere il film dopo averlo meditato a lungo, dopo averlo studiato, dopo aver visto e assorbito altre opere che potevano aiutarlo nella sua costruzione figurativa. Come primo esempio che può essere servito di ispirazione a Molaioli viene in mente un film di Sean Penn, "La promessa", tratto da un libro di Friedrich Dürrennmat, in cui un commissario, Jack Nicholson, si perde in una provincia americana che non conosce. Nella mancanza di aperture visive, di concessioni alle montagne, Molaioli sembra aver invece assimilato la lezione di un grande film di montagna in cui la montagna non si vede: "Falò" di Fredi M. Murer. Come il regista svizzero, Molaioli sceglie di guardare i personaggi da vicino. Il contesto in cui essi si muovono, in cui si dipana il giallo è minimale, congelato dal dramma. Prevalgono i riverberi, freddi e luminosi. Anche gli spostamenti al di fuori del paese, in città, a Udine, ubbidiscono agli stessi principi di chiusura degli spazi. Il film riesce in questo modo a restituire la claustrofobia che deriva dall’ambientazione originaria in un fiordo (il soggetto è tratto da un noir di un’autrice norvegese, Karn Fossum).

Ognuno dei personaggi sospettati dell’omicidio sviluppa una propria distinta psicologia. E in questo hanno una parte decisiva le interpretazioni assolutamente convincenti di attori come Valeria Golino, Anna Bonaiuti, Fabrizio Gifuni, Marco Baliani, Denis Fasolo, Omero Antonutti. Sopra a tutti, si staglia la prova di Toni Servillo, davvero uno degli attori di punta del nostro cinema. La sua recitazione è posata, imperturbabile, la sua fronte costantemente corrucciata.

Andrea Molaioli, per questo suo esordio, ha lavorato con lo stesso produttore di Paolo Sorrentino, che ha utilizzato stupendamente Toni Servillo ne "Le conseguenze dell’amore". Se aggiungiamo che Molaioli è stato aiuto regista di Nanni Moretti, abbiamo delineato in modo abbastanza chiaro il territorio registico in cui il giovane autore si muove.

Ci piace sottolineare quanto sia ben recitato, coralmente, questo film italiano. Perché a Venezia è capitato mille volte di stupirsi di fronte a recitazioni spontanee e credibilissime di attori franco-algerini o messicani e storcere la bocca davanti a interpreti italiani che sanno solo essere impostati e pesanti – basta guardare i tre film presentati in concorso, "L’ora di punta", "Il dolce e l’amaro", "Nessuna qualità agli eroi".

La semplicità e la linearità del racconto sono del tutto funzionali al giallo. Nel contesto asettico della provincia friulana arriva un ispettore, il protagonista Servillo, con tanto di baffi e impermeabile. Ma il suo essere commissario non ha niente di stereotipato o televisivo. L’idea di creare una serie di film o telefilm con quel protagonista e altre trame non è immaginabile: quell’uomo incontra proprio quella storia, in un altro contesto ci vorrebbe un personaggio diverso.

Anche le sotto-trame sono gestite con buona mano narrativa. In particolare, il tema della reclusione in clinica psichiatrica della moglie dell’ispettore è trattato con molta delicatezza, e con un ottimismo di fondo nel modo di guardare alle difficoltà della vita. Assistiamo a uno dei momenti più belli del film quando Servillo e la figlia si recano in visita alla clinica. Si siedono su una panchina. Accanto a loro passa la moglie, la madre, guardandoli appena, senza riconoscerli. Ma il padre sa trovare per la figlia una frase dolcissima: "Hai visto? Ti ha sorriso".

Certo, il film ha anche più di un difetto: nella soluzione un po’ sbrigativa dell’enigma investigativo (succede spesso, anche nei gialli migliori...) e nella definizione scarsamente realistica dello scenario: in questo fatto di cronaca mancano completamente i media, i giornalisti, le televisioni... E manca anche una doverosa correttezza nella descrizione degli ambienti giudiziari – gli interrogatori di garanzia avvengono in assenza di avvocati. Ma forse queste carenze contribuiscono a rendere l’opera ancora più semplice e asciutta. La verosimiglianza non è sempre un obbligo. "La ragazza del lago" ci porta in un contesto suo, lontano, sotto una campana di vetro, in un mondo senza tempo, capace di pietà.

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