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“Ave, Cesare!” di Joel ed Ethan Coen

Un successo immeritato

Tra gli anni ‘30 e ‘50 lo studio system di Hollywood si impone nel mondo del cinema. Le sette majors - MGM, Paramount, Columbia, Warner Bros, 20th Century Fox, Universal e RKO - dominano la produzione. Il sistema industriale è organizzato con a capo i produttori che decidono tutto: cast, registi, sceneggiature… Le majors inventano, codificano e si spartiscono i generi (commedia, film fantastici, gangster movie…) e lo star system, con cinquecento giornalisti, promuove i prodotti, anche a suon di scandali se necessario.

Non so quanto la critica cinematografica all’epoca fosse sottomessa al sistema e nemmeno quanto lo sia oggi. Certo che quando un film di produzione e/o distribuzione Medusa (della Fininvest) è recensito dalla rivista Ciak, sempre del gruppo di Berlusconi, qualche distanza si prende. Non a caso proprio Ciak spesso glissa sulle produzioni più commerciali. E fin qui va bene. Non mi spiego però cosa muova tanta critica italiana a schierarsi aprioristicamente, parrebbe d’ufficio, a favore dei fratelli Coen e delle loro opere, anche quando queste risultano così mediocri.

Mostri sacri insindacabili?

Sguardo benevolo e supervalutazione dei pochi lati positivi?

Pressioni superiori (la Universal Pictures ha ancora peso in questo mondo?), o infine solo pigrizia intellettuale?

Qualcosa non va. Non leggo le critiche prima di vedere un film, mi oriento con i giudizi sintetici, e per “Ave, Cesare!” erano più che positivi. Sconcertato, dopo il film ho letto anche le critiche, alcune a volte non entusiastiche e divaganti, ma comunque positive. Non la penso così.

Da un po’ di tempo va di moda riprendere i generi classici e rivederli, reinventarli. Tarantino capofila, ovvio, e i Coen al seguito. In questo i fratelli hanno centrato il bersaglio diverse volte, a partire dal bel film d’esordio “Crocevia della morte”.

Qua raddoppiano, anzi quadruplicano il gioco per un’escursione nei generi del cinema classico.

La storia, un mero pretesto, racconta una giornata nella vita di Eddie Mannix, incaricato di risolvere i problemi, anche spinosi, dei Capitol Studio degli anni Cinquanta. In questa veste, con l’atteggiamento di un direttore mastino ma dall’animo di un detective privato alla Philip Marlowe, Eddie rotea libero in tutti gli ambienti più stereotipati di quel mondo: dagli studios, alle ville sulla costa californiana, dai ristoranti cinesi di Hollywood agli uffici di sordidi avvocati…

Il film è costruito con i tanti sipari che si aprono sui vari set, portandoci dal colossal peplos, alle coreografie acquatiche stile Esther Williams, dal western alla commedia sofisticata, al musical stile Gene Kelly. Il gioco è farci anche vedere cosa c’è dietro quelle finzioni cinematografiche: registi snob, attori infantili, attrici cagne, sceneggiatori frustrati, complotti comunisti, giornaliste pettegole. Tutti personaggi che il nostro Eddie cerca di gestire e manipolare in funzione del business.

Il citazionismo è continuo e divertito, in parte esplicito (c’è perfino un attore che fa Stinky Pete di “Toy Story 2”), ma per lo più è indiretto, d’epoca, di ambiente, d’atmosfera. Per un po’ funziona, ma presto stanca e lascia il posto alla sensazione di girare a vuoto in un esercizio di stile pretestuoso, fine a se stesso, poco emozionante e coinvolgente.

Una critica allo studio system? Non la vedo proprio, piuttosto un omaggio, spesso però miseramente risaputo. Tra tutto si salva la sequenza del dibattito teologico, ma anche qua Woody Allen ci ha fatto vedere di meglio.

I Coen mostrano di saperne un sacco di cinema. Lo sappiamo che ne sanno, è una vita che ci giocano, e così anche questa volta si sono sicuramente divertiti un mondo a fare il film; noi molto meno a vederlo.

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