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Burundi: bambini di strada

Sei storie e una riflessione su cosa significa essere nati nella parte sbagliata del mondo. Da “Una Città”, mensile di Forlì.

Philippe de Pierpont (a cura di Bettina Foa)

All’epoca del mio primo film in Burundi, nel 1991, ero un cineasta alle prime armi. Ero finito a Bujumbura (la più grande città del Paese, un milione di abitanti) per un reportage sui giovani che vivono per strada. Un gruppo di questi viveva sul marciapiede di fronte al mercato centrale e ogni giorno passavo davanti al loro quartier generale. Non erano orfani e non erano stati cacciati da casa: se n’erano andati perché i genitori non erano in grado di mantenerli. Vivevano di elemosina e di lavoretti: vendevano arachidi, controllavano le macchine parcheggiate, trasportavano carichi...

Purtroppo, oltre al freddo e agli stenti, subivano molte violenze e spesso i più grandi derubavano e aggredivano i più piccoli. Per proteggersi costituivano dei gruppi di 4/6 persone. Il “mio” gruppo era fatto di sei bambini, con Zorito capo assoluto; che un giorno mi disse: “Philipo, devi fare un film su di noi, perché abbiamo tante cose da dire agli adulti, per loro noi siamo invisibili, siamo visibili solo se facciamo qualcosa che non va, allora ci insultano, ci picchiano, ci sputano addosso”.

Risposi che non conoscevo il Paese: “Chiedi a un burundese, farà il film molto meglio di me”. “Tu sei l’unico che può farlo, perché ci rispetti e discuti con noi”. Zorito, che all’epoca aveva dieci anni, disse che io avevo un doppio potere: possedevo la telecamera ed ero bianco e quindi ero in grado di convincere il direttore della televisione nazionale a mandare in onda il film.

Accettai a una condizione: “Non so niente di voi e della città, sarete voi a darmi i consigli, a fare gli sceneggiatori, a dirmi dove andare”. E così è stato. Sono rimasto sette settimane e subito abbiamo cominciato a discutere e a girare questo primo film di trenta minuti, in modo un po’ improvvisato, con i bambini che si intervistavano a vicenda sulla loro situazione e su quello che avrebbero voluto fare. Girando il film, ho capito quale fosse la loro vita quotidiana, ho scoperto la città a piedi (nessun bianco lo faceva), fino alle periferie, fino al lontano quartiere Buterere dove c’è la discarica.

Una volta lavorato il materiale, l’abbiamo visionato e poi sono andato dal direttore della televisione che l’ha mandato in onda. Il film ha avuto un grande successo in Burundi, è passato più volte alla televisione ed è stato proiettato in vari ministeri, come base di discussione sul problema dei bambini di strada. L’impatto è stato importante anche perché era in corso un censimento della popolazione giovanile che viveva per strada. E quindi i bambini sono diventati finalmente dei protagonisti, erano conosciuti dappertutto.

Tornare in Belgio e lasciarli in quelle condizioni è stato doloroso, e allora ho proposto di tornare regolarmente. Abbiamo fatto quasi un patto di sangue.

Da allora sono andato a Bujumbura più di venti volte e alla fine abbiamo fatto quattro film sulla loro vita, l’infanzia, l’adolescenza e l’età adulta. Sono andato nel ‘93 durante le prime elezioni libere, poi nel ‘94 ho fatto il secondo film; la situazione era molto cambiata dopo il colpo di stato, l’assassinio del presidente e l’inizio delle violenze, la città era piena di rifugiati ed era divisa tra quartieri hutu e tutsi. Tra il 1994 e il 2004, data del terzo film, le visite si sono diradate perché durante la guerra civile era impossibile fare qualsiasi cosa.

L’ultimo è l’unico dei film che non abbiamo potuto girare in Burundi perché non si potevano più utilizzare telecamere e microfoni, per impedire che ci fossero testimonianze su quel che succedeva. Lo abbiamo quindi girato in Kenya. Rimane ora un ultimo film da fare, il quinto, quello della vecchiaia, l’ultimo bilancio della vita.

Le storie

Già nel 1994 il gruppo si era sciolto e ognuno era andato per la sua strada. Comunque sono riuscito a seguirli anche da lontano, avevo notizie più o meno ogni mese. Attualmente il mio contatto è Jean-Marie, che ha studiato fino alle superiori; gli diedi un telefono e un computer, così potevamo sentirci quando volevamo.

La vita dei ragazzi di strada è molto precaria. Due del gruppo sono morti prima dell’ultimo film. Zorito, il capo banda, è morto il primo giorno dei sopralluoghi dell’ultimo film e ho potuto girare le immagini terribili della sua morte e del funerale. Quando sono arrivato e non l’ho trovato ero preoccupato, lui era sempre il primo che incontravo. Negli ultimi anni la sua situazione era peggiorata. Lui era un genio, discuteva con i ministri e con i giornalisti, e nelle discussioni vinceva sempre, aveva una capacità di analisi molto acuta. Essere considerato una nullità per lui era una frustrazione enorme, molto più che per gli altri. E quindi ha cominciato a bere e drogarsi in modo pesante... L’ho trovato sdraiato in mezzo alla strada con i camion che sterzavano all’ultimo momento; l’ho tirato da parte e gli ho detto che finalmente ero arrivato, ma lui mi ha risposto: “Sei arrivato troppo tardi, Philipo”. Se n’è andato e un’ora dopo è stato investito da una macchina della polizia.

Anche Philibert è morto. È quasi un racconto biblico. Sulla riva del lago Tanganyka, a causa dell’inquinamento, non ci sono quasi più pesci e quindi Philibert è andato a rubare del pesce in un vivaio privato. Si è fatto prendere e i guardiani gli hanno detto: “La prossima volta ti uccidiamo”. E così è stato: la seconda volta l’hanno bastonato a morte.

Gli altri del gruppo hanno avuto varie vicende. Jean-Marie è fuggito in Kenya durante la repressione del 2015. Tutta la sua famiglia è hutu, tranne il padre tutsi che è stato ammazzato durante la guerra. Adesso è tornato in Burundi; è l’unico di loro che ha accettato la disciplina di un centro di accoglienza ed è rimasto là fino ai 21 anni.

Etu lo si vede nel film a vent’anni che dice: “Io non farò mai dei bambini perché so che non avrò mai abbastanza soldi per mantenere una famiglia”. Ero riuscito a trovargli un posto come guardiano presso una ong tedesca e dopo quattro anni, coi soldi messi da parte, ha deciso che poteva fare dei figli. Si è quindi sposato e ha avuto tre bambini, ma poi l’ong è andata via e si è trovato senza lavoro. La moglie, emigrata a Dubai, lavora come assistente domestica e non riesce più a tornare. I tre figli vivono con la nonna. Lui è tornato a dormire in strada, accanto alla casa dei figli. Non può più mantenerli, però quando ha dei soldi li dà alla nonna. È un uomo onesto e quindi vive con disperazione il fatto di non essere più in grado di dar da mangiare ai figli.

Poi c’è Assouman. Vende sigarette dall’età di 8 anni e ha continuato fino a qualche tempo fa. Ogni domenica andava dalla madr (a cura di Bettina Foa)e e le dava quasi tutti i soldi guadagnati. Nell’ultimo film racconta la sua tragedia. Aveva incontrato una ragazza che vendeva arachidi e si erano innamorati; lui aveva un lavoro fisso e così aveva affittato una stanza dove vivere assieme. Avevano anche avuto una bambina. Andava tutto bene anche se erano poverissimi. Ma poi, durante un temporale, la casa di mattoni crudi, costruita sulle rive instabili di un fiume, si è sfaldata. Sono fuggiti in piena notte, ma nel freddo e nella pioggia la bambina, di otto mesi, è morta. In seguito si sono separati e lui è tornato nelle strade. Innocent è solo da sempre, ha capito che avere una moglie è impossibile, e lo accetta. Vive di piccoli lavori.

Sì, la loro è una vita terribile. Ogni tanto le cose sembrano aggiustarsi, ma poi succede qualcosa che manda tutto all’aria. La guerra civile li ha colpiti quando avevano tra i dieci e i quindici anni ed è durata 13 anni, proprio nell’età in cui potevano costruirsi una vita. La guerra ha bloccato il futuro di un’intera generazione. A Bujumbura non c’è lavoro, la città è piena di profughi e i soli investimenti sono nella costruzione di palazzi per i profittatori; è un’economia distrutta da una guerra civile che ha ucciso tanti ragazzi. I “miei” sono scampati senza ferite fisiche, ma con enormi ferite morali. Non si vedevano come hutu o tutsi; uno di loro mi diceva: “Dormo sul marciapiede, sono un bambino di strada, questa è la mia identità; la storia di hutu e tutsi è una fesseria per avere il potere e ingannare la gente”.

I tentativi

Io ho cercato di aiutarli come ho potuto: intanto con la partecipazione a questi film, che ha avuto per loro un importante impatto materiale. Mentre ero a Bujumbura per girare, mangiavano tre volte al giorno; nell’ultimo film hanno potuto dormire in un hotel su un vero letto, andare dal dottore, dal dentista... Inoltre, una parte del budget andava a loro come pagamento, per finanziare un progetto che potesse migliorare la loro vita. Queste iniziative duravano poco tempo, ma già il fatto di pensare a dei progetti e tentare di realizzarli dava un senso alla loro vita. Per esempio, Philibert ha chiesto una bicicletta per fare il taxi-bicicletta; per cautelarlo gli ho dato un documento che ne attestava la proprietà; ma nonostante questo dopo sole tre settimane i poliziotti l’hanno fermato e accusandolo di aver rubato la bicicletta, hanno strappato il documento e gli hanno rubato, loro, la bicicletta!

A Zorito ho trovato vari lavori. Nel 2004 mi chiese di pagare dieci mesi di anticipo di affitto di una casa perché aveva incontrato una ragazza di cui si era innamorato, ma tre settimane prima che Zorito entrasse in questa casa, la sua compagna è stata uccisa da una pallottola vagante durante degli scontri e quindi è andato ad abitarci da solo. Ma è durata solo quattro mesi, perché il proprietario è andato dalla polizia dicendo senza vergogna che Zorito non aveva mai pagato l’affitto e che doveva andarsene. E tra un ragazzo di strada e un proprietario, la polizia ha creduto a quest’ultimo.

Jean-Marie, l’unico che ha studiato, a Bujumbura ha messo su un taxi.

Il mio ultimo film è stato prodotto con buoni mezzi e quindi le richieste dei ragazzi sono state più ambiziose, cioè di avere una casa in cui vivere. E quindi si sono fatti costruire una piccola casa: Assouman vicino alla famiglia, con cui ha ancora dei legami. Innocent nel piccolo terreno dei genitori. Etu invece, che non ha famiglia, ha pagato un affitto e il materiale per aprire un negozio di riparazione di biciclette. Dopo sole tre settimane, Innocent mi ha chiamato raccontando che gli avevano rubato il tetto della casa e tutto il resto. Vivendo in un quartiere di gente poverissima, le sue poche cose sembravano delle ricchezze. A Etu, dopo appena tre mesi, i ladri hanno rubato tutto nel suo atelier. L’unico per cui le cose sembrano funzionare è Assouman.

Il fatto di aver partecipato a questa avventura di cinema e di vita è stato per loro fondamentale e forse non è per caso che quattro di loro sono ancora vivi. I film gli hanno dato l’opportunità di riflettere sulla loro esistenza, sul loro modo di vivere. Dopo le riprese si sentivano bene, delle persone complete e hanno capito che la loro vita ha un valore.

Abbiamo ancora un rapporto stretto, ma siamo anche distanti, estranei, un fossato esisterà sempre tra di noi. I film sono stati un ponte, ma non cambieranno la situazione nel profondo. Io vivo nel bon côté du monde e loro sono nati nel mauvais côté. All’inizio mi chiedevo se non avessi dovuto anche dormire insieme a loro per la strada; ma Zorito ebbe la risposta giusta: “Philipo, se resti qui in strada, dammi la chiave e io vado a dormire nella tua camera all’hotel”!

Penso di girare l’ultimo film, quello sulla vecchiaia, tra circa dieci anni, perché loro invecchiano più rapidamente di me. Credo che a un certo punto dovrei parlare anche di come questi sei amici hanno cambiato la mia vita. Avrei molte cose da dire. Vedremo.

* * *

Philippe de Pierpont è uno scrittore, sceneggiatore e regista belga.

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