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Vincitori e vinti dopo Gaza

La vittoria di Pirro di Israele.

La breve ma violenta ultima guerra tra le milizie palestinesi di Hamas e Israele a Gaza non è stato l’ennesimo (impari) scontro tra uno degli eserciti meglio armati e più efficienti al mondo e le milizie di combattenti irregolari palestinesi. Milizie che han passato la gran parte del tempo nei cunicoli e postazioni sotterranee da cui hanno fatto partire oltre 4000 razzi in undici giorni. Ma facendo in realtà danni modesti: una decina di morti israeliani o poco più e qualche decina di feriti, a fronte degli oltre 250 morti palestinesi, soprattutto civili, che si contano sotto le macerie di Gaza bombardata con (chirurgica?) precisione dall’aviazione militare di Tel Aviv. La contabilità dei morti e dei danni materiali però – che indiscutibilmente depone per un ennesimo successo militare israeliano - non ha tratto in inganno gli osservatori di cose militari e gli esperti di geopolitica e di Medio Oriente.

All’indomani della tregua firmata con i buoni uffici dell’Egitto, Israele e Hamas hanno gridato vittoria, ma a ben vedere le cose sono un po’ più complicate. Se potessimo riassumere in una frase l’esito del confronto, potremmo dire che Israele ha colto la classica vittoria di Pirro; insomma, ha vinto sul campo una battaglia (e poteva essere altrimenti, data la disparità delle forze in campo?), ma ha riportato una sconfitta strategica di portata ancora difficilmente valutabile e vedremo subito perché. L’unico a sfregarsi le mani in Israele è il premier Benjamin Netanyahu. Dato politicamente per moribondo dopo le ultime elezioni e ormai prossimo a cedere il posto a Lepid, il capo dell’opposizione, l’irrompere della guerra lo ha rimesso in sella come comandante in capo del paese in guerra, allontanando ancora d’un poco la sua uscita di scena.

In Israele nessuno oggi si nasconde la verità: Netanyahu ha concesso alla destra razzista israeliana di scatenare le sue provocazioni sulla spianata delle moschee a Gerusalemme per poi cogliere al volo la possibilità di dare una lezione ad Hamas, che aveva reagito alle provocazioni inondando i cieli israeliani di razzi rudimentali ma capaci di seminare il terrore tra la popolazione. Netanyahu, insomma, ha tutte le ragioni per dichiararsi vittorioso. Ma il resto di Israele?

Quanto ad Hamas, il suo capo politico Haniye ha colto due obiettivi importanti, uno politico e uno militare. Ha mostrato che solo Hamas (e l’alleata milizia della Jihad) è in grado di ergersi a difensore dei palestinesi contro i soprusi dell’occupazione israeliana a Gerusalemme e in Cisgiordania, con ciò screditando forse definitivamente il già debolissimo capo di al-Fatah, quel Mahmud Abbas (alias Abu Mazen) che da decenni “governa” la Cisgiordania palestinese, ma senza nessuna reale autonomia, essendo completamente sottomesso al comando militare israeliano che presidia non solo i confini esterni della Cisgiordania ma anche il suo territorio interno. Da tempo Hamas lo accusava senza mezzi termini di essere poco meno che un fantoccio della potenza occupante, o nella migliore delle ipotesi un capo imbelle e incapace. Mahmud Abbas non a caso con pretesti vari ritarda da 15 anni le elezioni nei territori palestinesi perché sa bene che il suo partito al-Fatah, erede del partito storico di Arafat, verrebbe sonoramente battuto da Hamas che così diventerebbe il primo partito anche in Cisgiordania. Dopo la guerra di Gaza, insomma, Mahmud Abbas – acerrimo nemico di Hamas e secondo alcuni osservatori persino segretamente speranzoso che questa guerra spazzasse via la dirigenza del partito rivale – è il vero sconfitto in campo palestinese.

Sul piano militare, come s’è detto, Hamas è andato incontro nella striscia di Gaza che governa a una sconfitta pesante, se si guarda al bilancio di danni e vittime. Ha invece conseguito una vittoria sul piano strategico: Israele non si aspettava una pioggia di 4000 razzi, e pare che gli arsenali di Hamas ne custodiscano almeno il triplo. La pioggia di questi missili sulle città israeliane ha mostrato anche i limiti del sistema difensivo anti-missile Iron Dome, che l’esercito israeliano strombazzava da tempo come una difesa pressoché insuperabile. Secondo gli israeliani il sistema avrebbe intercettato il 90% dei razzi in arrivo, ma come si può intuire si tratta di una stima di parte e va corretta al ribasso. Il dato peggiore però è un altro: undici giorni di lanci hanno pressoché esaurito le scorte di missili anti-missile del sistema Iron Dome, sicché qualcuno ha arguito che Israele si è visto costretto ad accettare la tregua anche perché di lì a poco non avrebbe più avuto munizioni sufficienti. Ma in sede di bilanci l’aspetto più preoccupante dal punto di vista strategico e militare per i generali di Tsahal (l’esercito israeliano) è un altro ancora ed è stato ben riassunto in una intervista rilasciata da Lierberman, un ex ministro degli esteri israeliano e stretto alleato di Netanyahu, con questo ragionamento: se i razzi partiti dalla Striscia di Gaza ci hanno messo in crisi, che sarebbe stato se fossimo stati attaccati anche dal Libano dalle milizie assai più potenti di Hezbollah che hanno in dotazione non razzi rudimentali, ma missili di precisione forniti da Sira e Iran? Questa è la domanda da incubo che oggi pesa sulle future strategie del governo di Israele che, finalmente, si sta rendendo conto che il tempo lavora per i paesi nemici (Siria, Libano, Gaza) e il loro alleato e protettore lontano, l’Iran, non per Israele.

La minaccia: Hezbollah e l’Iran

E qui arriviamo al vincitore nascosto di questa ennesima guerra tra Israele e Hamas: l’Iran, minacciato un giorno sì e un giorno no da Israele di venire colpito con un attacco preventivo. I generali iraniani se la ridevano sotto i baffi osservando le difese anti-missile di Iron Dome impegnate sino allo stremo dal più piccolo dei nemici di Israele: le sgangherate milizie di Hamas di Gaza. L’intelligence israeliana aveva già fatto presente che i missili di precisione di Hezbollah partendo dal vicino Libano potrebbero mettere a terra le strutture civili di Israele, causando danni sinora impensati, come paventava lo stesso Libermann nell’intervista su accennata. Che dire allora nel caso di un conflitto con l’Iran, che ha un arsenale missilistico di precisione di prim’ordine e quantitativamente non precisabile (le stime vanno dai 150.000 missili in su)?

Ecco, davvero la guerra di Gaza ha messo a nudo la debolezza strategica di Israele. Osservatori militari hanno fatto presente che un missile nemico che colpisse strutture critiche come per esempio la centrale nucleare di Dimona nel deserto israeliano del Negev o i depositi di ammoniaca nel porto di Haifa, causerebbe una catastrofe umanitaria, aggravata dal dato geografico: dove potrebbero fuggire le popolazioni civili d’Israele, stante il fatto che il paese è piccolo, in certi punti non più largo di 50 chilometri e interamente circondato da paesi arabi ostili? Per Israele è venuto il tempo di comprendere che la potenza militare e il suo uso spregiudicato non potranno risolvere ancora a lungo i suoi problemi di sicurezza.

V’è un ultimo dato da non sottovalutare: l’opinione pubblica occidentale, pur attentamente regolata da un sistema di informazione vistosamente orientato in senso filo-atlantico e filo-israeliano, a seguito del terribile sbilancio tra i morti israeliani e i morti palestinesi (tra cui decine di donne e bambini), sta cambiando le proprie simpatie parteggiando in modo crescente per il più debole dei contendenti. È facile rilevarlo non tanto sui media mainstream, quanto su una miriade di siti d’informazione in Internet. Di più, anche sulla stampa internazionale ormai sono sempre più frequenti interventi di autorevoli personaggi (il vescovo premio Nobel Desmond Tutu in Sudafrica, il democratico Sanders negli USA, solo per fare due nomi notissimi) che lanciano a Israele accuse aperte di mantenere in piedi un odioso sistema di apartheid. Un sistema che vistosamente discrimina la popolazione palestinese non solo a Gaza e in Cisgiordania, ma anche, sia pure in forme meno appariscenti, gli stessi cittadini arabo-israeliani. Clamorosa è stata a Ginevra la recente decisione (27 maggio) del Consiglio dei diritti umani dell’ONU di aprire un’inchiesta internazionale sulla violazione dei diritti umani commesse sin da aprile nei Territori occupati e in Israele, adottata con 24 voti a favore, 9 contrari e 14 astensioni. Contemporaneamente l’Alto Commissario Michelle Bachelet ha dichiarato che i raid aerei su Gaza “potrebbero costituire crimini di guerra”. Insomma, il vento per Israele sta cambiando direzione sotto ogni aspetto, geopolitico e militare in primis, ma il vento cambia persino nell’orientamento della percezione che il mondo e il sistema dell’informazione globalmente inteso hanno del problema mediorientale e dei suoi attori. I nemici acerrimi come Hamas a Gaza e Hezbollah in Libano o la Siria di Assad saranno in futuro sempre meglio armati; potenze regionali come Turchia e Iran (che ultimamente sta ritrovando nei colloqui di Vienna l’accordo sul nucleare con l’America di Biden) avranno un ruolo sempre più importante nello scacchiere mediorientale.

Forse è venuto il tempo per Israele di provare a voltare pagina, cominciando con l’archiviare le politiche discriminatorie nei confronti dei palestinesi; Hamas non può essere liquidato con l’etichetta “movimento terrorista”, quando evidentemente per i palestinesi è un movimento patriottico di resistenza all’occupante. Ma è venuto il tempo anche di smettere di credere che i problemi di Israele con i vicini piccoli e grandi si risolvano muscolarmente con Tsahal e il Mossad, e di capire che occorre cercare piuttosto un vero accordo di pace. Non gli “accordi di Abramo”, fatti sotto la spinta di Trump con i paesi arabi del Golfo già da tempo in pace con Israele e persino soci d’affari. La pace, dice un vecchio detto di universale circolazione, si deve farla con il proprio nemico. Ma ci vuole onestà e lungimiranza, e nella classe politica israeliana non si vede ancora chi possa portare il paese a voltare pagina.