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QT n. 6, 18 marzo 2000 Servizi

Integrati, assimilati, gastarbeiter o solo cittadini

Americani, tedeschi e francesi hanno seguito modelli diversi nell’affrontare l’inserimento degli immigrati. Noi dove stiamo andando?

Lo scorso anno l’Europa comunitaria, 376 milioni di abitanti, ha registrato una crescita naturale di 266 mila persone ma, nello stesso periodo, ben 717 mila immigrati - il triplo - si sono stabiliti entro i suoi confini. A Londra si parlano 307 lingue diverse; a Francoforte quasi un abitante su quattro non è tedesco; in Italia la popolazione interna è calata dello 0,8%, mentre il saldo migratorio ha segnato un +2,3%; per l’Onu saranno 300.000 all’anno gli immigrati necessari al nostro paese per mantenere stabile la sua forza lavoro e 500.000 alla Germania. Sempre per il nostro paese, la Ragioneria dello Stato prevede, nel 2040, 44 milioni di abitanti contro i 58 di oggi e 41 milioni nel 2050: chi prenderà il posto dei 17 che verranno a mancare?

Siamo pronti ad accoglierli? Le inquietudini sono giustificate? Meglio chiudere le porte o accettare la nascita della "società multietnica" delle migrazioni internazionali? Quest’ultima, un sistema sociale in cui convivono soggetti con identità etniche diverse e consapevoli di appartenere ad un gruppo che condivide uno spazio geografico di residenza, una comune discendenza ed una cultura condivisa, sembra oggi la strada obbligata. La vera incognita è rappresentata dai processi di inserimento, relativamente ai quali i concetti più ricorrenti sono quelli di assimilazione e di integrazione; la prima è il processo attraverso il quale il nuovo arrivato interiorizza i modelli di comportamento e i valori di fondo della società che lo ospita, e si attua attraverso il lavoro, che lo rende simile agli altri privandolo della sua cultura.

L’integrazione, invece, riguarda per lo più la sfera socio-economica ed implica l’adozione di comportamenti e il raggiungimento di condizioni di vita che riducono i rischi di segregazione e di conflitto senza concretizzarsi in una completa conformità culturale.

Per prevenire le difficoltà di convivenza tra stranieri e autoctoni, sono determinanti le politiche di accoglienza. Nella tradizione americana ed europea troviamo differenti modelli.

Negli Stati Uniti si sono seguiti tre vie: l’assimilazione, ossia la trasformazione dei nuovi venuti in americani; quindi il melting pot (crogiolo), ossia il mescolamento delle tradizioni con elaborazione di nuovi modelli culturali; infine il pluralismo culturale, con la promozione dello sviluppo di una società pluralista nella quale sia riconosciuta a tutti pari dignità.

Il modello tedesco si fonda invece sul concetto di Gastarbeiter (lavoratore ospite), tipico delle migrazioni dirette verso il Nord-Europa, particolarmente in Germania, fino agli anni ‘70. Lo straniero era considerato un semplice prestatore d’opera cui si concedeva una permanenza sul posto a tempo e scopi definiti. Le politiche dell’immigrazione si basavano sulla regolazione dei flussi in ingresso, sull’integrazione professionale, sull’incentivazione dei rimpatri (in particolare per i soggetti disoccupati) ed eventualmente sulla rotazione delle presenze per prevenire l’insediamento stabile dell’immigrato.

L’approccio francese, al contrario, si è sempre ispirato a una visione decisamente assimilatrice. Le politiche per gli immigrati hanno sempre promosso l’assimilazione degli stranieri all’ideale di una Francia laica e repubblicana. Di qui la centralità attribuita alle agenzie educative, in primo luogo alla scuola, rispetto all’obiettivo dell’integrazione culturale degli immigrati e dei loro discendenti.

E l’approccio italiano? L’immigrazione in Italia risale a tempi molto più recenti e ha dimensioni più ridotte rispetto ai tre paesi sopracitati. Per il momento non esiste una vera politica verso l’immigrazione lasciata ai clandestini dei motoscafi, dei passi càrnici e delle navi turche.

Vari governi si sono limitati a stabilire delle norme per l’entrata, norme troppo spesso lasciate nei cassetti, corrette o superate da sanatorie. Eccettuati alcuni episodi, (S. Salvario a Torino, scontri nei vicoli di Genova, incendio delle roulottes di zingari a Napoli), non sono segnalate tensioni diffuse tra locali ed extracomunitari. Tutti gli immigrati, in ogni caso, superata l’emergenza dell’arrivo, si scontrano con problemi concreti: abitazioni, inserimento sociale, scuola, sanità, educazione.

La percentuale di stranieri extracomunitari in regione è del 2,3% (Bolzano 2,5%, Trento 2%) e dunque sopra la media nazionale (1,6%) ma ben lontana da quelle di altri paesi europei (Lussemburgo 9,3% nel ’99). La grande maggioranza degli extracomunitari in regione possono essere raggruppati in quattro insiemi. I Magrebini sembrano tra i più stabili e quelli guardati con più sospetto in quanto spesso coinvolti in fatti di delinquenza, in particolare spaccio di droga.

Albanesi e Kossovari, invece, in modo manicheo, sono divisi in "violenti e sfruttatori di minorenni" e "grandi lavoratori". Un piccolo imprenditore della Val di Cavedine con due Albanesi alle dipendenze, afferma sicuro: "Ottimi lavoratori e uomini onesti. Purché non andassero da un altro, ho dato

loro anche la casa". I neri sono guardati con benevolenza e definiti gentili. Quelli che lavorano "lavorano sul serio e più di tanti di noi". La maggior parte dei neri è di passaggio. Presenti nel commercio ambulante.

Gli extracomunitari europei, per lo più provenienti dalla ex Yugoslavia (930 croati), per via della somiglianza somatica ed in buona parte culturale, sono quasi invisibili e comunque cercano di diventarlo per non essere confusi con gli altri. Sono presenti per lo più nell’edilizia.

In generale esiste una diffusa, sottile ma raramente proclamata opposizione ai nuovi, una forma discriminatoria leggera: l’immigrato è accettato perché serve, ma nel tessuto sociale il suo inserimento rimane problematico. Se in pubblico pochi si esprimono apertamente contro gli stranieri in quanto è socialmente corretto accettare l’immigrato, aiutarlo, integrarlo, nel privato basta insistere un po’, magari con un tono di complicità e saltano fuori toni ed affermazioni dure: "Sono come i teroni", "Niente case Itea", "Proibire i matrimoni coi marocchini, sono solo prepotenti e rubano i figli alle madri". Una signora mi ha quasi ordinato "Scrivi che li buttino fuori". Nell’insieme vengono spesso definiti "remengaria".

Sullo sfondo molti stereotipi, un po’ di prevenzione, qualche timore legato a fatti di criminalità, e forse, come suggerisce un immigrato, la paura che loro siano più bravi di noi, la preoccupazione di venir travolti dalla natalità dei nuovi venuti. Può rendere il clima di fondo l’esperienza di Carlo di Gardolo, appassionato di auto d’epoca: "Nel settembre scorso mi sono comprato un vecchio Citroen targato Vicenza per restaurarlo. Da allora carabinieri e polizia mi hanno fermato quattro volte ed una mi sono corsi dietro. L’ultima ho protestato: ‘Ma è la quinta volta!’ e uno mi ha risposto: ‘Per forza, giri con una macchina da marocchino!’"

L’Espresso ha pubblicato la settimana scorsa un sondaggio condotto tra 600 italiani adulti su come gli italiani vedono gli stranieri. Risulta che Albanesi, Slavi e Rom sono le etnie considerate più violente tra quelle presenti in Italia. La maggior pericolosità degli Slavi dipende dal fatto che sono "portatori di violenza". Per gli Albanesi la stessa accusa, accompagnata da quella di avere "poca voglia di lavorare". Per i Rom la solita di rubare. Più di un italiano su due vorrebbe il numero chiuso per gli immigrati.

A loro volta, questi gruppi, se non si sentono accettati, rispondono spesso con l’auto-isolamento e si difendono formando gruppi etnici chiusi con posti fissi di ritrovo: ecco i bar (da evitare) degli albanesi, la stazione degradata delle corriere in mano ai marocchini, i giardini occupati dai neri, ecc.. Niente di nuovo: non ricordiamo negli anni ’60 le stazioni dei treni in Germania in mano agli Italiani? Non di rado sviluppano sentimenti di arroganza, si pensi agli zingari.

In Trentino, la normativa riguardante l’immigrazione poggiava sulla Legge Provinciale 2 maggio 1990, n° 13 emanata per recepire una legge nazionale del ’86. Essa creava una Consulta provinciale sull’immigrazione attivata presso la giunta. Operava con nove membri indicati dalle associazioni operanti nell’immigrazione, tra i quali sei cittadini immigrati con funzione specifica di rappresentanza, uno dei quali era nominato vicepresidente.

Nella scorsa legislatura, però, la Giunta chiuse la Consulta adducendo come motivo i costi e la scarsità di risultati. Ora si è in attesa di recepire la legge nazionale 6 marzo 1998, n° 40 che disciplina l’immigrazione straniera e detta norme sulla condizione dello straniero sul territorio nazionale. Riguardo l’integrazione, essa affida a Regioni, Province, Comuni ed associazioni il compito di perseguirla tramite azioni programmate. Ma loro, i nuovi arrivati, cosa ne pensano?

Un’interessante indagine, presentata nel maggio ’99, condotta sugli immigrati della regione dallo studio "Res" di Trento, ha tentato di dare una risposta. Risalta subito una notevole differenza tra le due province, dovuta alla particolare situazione bolzanina e ai suoi particolari equilibri etnici. A Bolzano è molto più diffusa la chiamata diretta dall’estero del lavoratore per lavori stagionali sul modello del Gastarbeiter tedesco: il 98% delle chiamate infatti è a tempo determinato in lavori stagionali come raccolta delle mele ed alberghi. Gli immigrati intervistati, comunque, tendono ad integrarsi più col gruppo italiano, considerato più aperto, e ad impararne la lingua.

In provincia di Trento, la situazione è più fluida, ma i problemi di fondo sono gli stessi. Ecco come valuta un immigrato il suo inserimento sociale: "Finché l’extracomunitario è sottomesso, l’aiuto come forma di carità non manca. Ma quando l’aiuto deve divenire più qualificato, quando richiede cooperazione, [gli italiani] diventano più gelosi, entra in gioco la concorrenza, lo sentono uguale, pensano che possa divenire più bravo di loro e si tirano indietro".

Un altro problema lamentato particolarmente dai magrebini, è quello della conservazione della cultura d’origine, con riguardo al crescere dei figli. Una senegalese: "Il bambino va all’asilo italiano, ha amici italiani, torna a casa e parla italiano [..] Anche se per le vacanze vanno in Senegal.. è una cultura di mezzo che stanno sviluppando".

Un altro lamenta l’accentramento da parte delle istituzioni anche di quelle funzioni di rappresentanza che andrebbero delegate ai diretti interessati: "Qui, quando si parla di stranieri, le iniziative vengono promosse e gestite dai locali, senza un coinvolgimento degli stranieri [..] Questo non succede in altre realtà".

Schutz, nei suoi "Saggi sociologici", definisce l’immigrato "un adulto del nostro tempo e della nostra civiltà che cerca di essere accettato permanentemente o per lo meno tollerato dal gruppo in cui entra [..] un ibrido culturale in bilico tra due diversi modelli di vita di gruppo, senza sapere a quale dei due appartiene". Forse è proprio questo il maggior disagio vissuto dall’immigrato, ancor più delle difficoltà economiche, dei permessi o dell’alloggio , difficoltà che in un modo o l’altro possono venir superate.