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QT n. 21, 8 dicembre 2001 Servizi

Immigrati: non muri ma ponti

Gli immigrati vanno bene nelle fabbriche ma non devono essere visibili nella società.

Sabato 1 e domenica 2 dicembre si è tenuto a Rovereto, presso il Teatro Rosmini, il Convegno nazionale "Enti locali e diritti di cittadinanza degli immigrati: esperienze e proposte", organizzato dal Forum Trentino per la Pace, che in materia di immigrazione ha una propria competenza statutaria. Il Convegno ha offerto un’ampia ricognizione delle iniziative coraggiose e innovative in corso presso molte amministrazioni comunali e provinciali in Italia, con l’obiettivo - ha detto Vincenzo Passerini presidente del Forum - di "rilanciarle alla nostra comunità e alle nostre istituzioni".

L’immigrazione, pur attestata in Italia su valori più bassi rispetto alla maggior parte degli stati dell’Europa occidentale (1 straniero ogni 35 abitanti, un terzo rispetto a paesi come l’Austria, la Germania, il Belgio), è diventata anche nel nostro paese un fenomeno permanente ed irreversibile. Lo ha ricordato Passerini elencando alcuni dati del "Rapporto 2001" della Fondazione Nord Est. Su sette nuovi assunti uno è un immigrato; la manodopera straniera è diventata indispensabile per alcuni settori produttivi dell’industria, dell’artigianato, dell’agricoltura, nei servizi, mentre una nicchia di particolare significato è venuta a costituirsi nell’assistenza domiciliare agli anziani e agli ammalati (circa 1500-2000 donne dell’Est in Trentino, quasi tutte clandestine). Il nostro sistema assistenziale e sanitario crollerebbe se queste "strane prigioniere in casa" venissero espulse.

Il fenomeno insomma ha ormai superata la fase emergenziale e imboccata quella che gli esperti chiamano della territorializzazione, vale a dire dello stanziamento permanente di nuclei familiari di immigrati, soprattutto per via dei ricongiungimenti. Questo, piaccia o non piaccia, costringe a voltare pagina, ad abbandonare atteggiamenti improvvisati e superficiali.

Ma le resistenze non sono poche. Se la società plurietnica è ormai un fatto acquisito, sul concetto di società pluriculturale è ancora dialettica accesa. Tutti ormai accettano (anzi ricercano) gli immigrati come lavoratori, regolari o in nero, ma molti rifiutano ancora la loro visibilità sociale, non accettano le differenze di cultura, di costumi, di religione, di lingua. "Vanno bene nelle fabbriche ma non devono essere visibili nella società" - ha detto Abulkheir Breigeche, il presidente della Comunità Islamica del Trentino Alto Adige. C’è ancora chi vagheggia di poter relegare gli immigrati in un ghetto, o, in alternativa, di assimilarli, omologarli agli ospitanti, negando loro ogni possibilità di esprimere diversità. Ma è anche diffuso un atteggiamento, colorato di un certo darwinismo sociale, per cui gli immigrati che veramente vogliono integrarsi, che ne hanno le capacità, le motivazioni, i valori giusti, prima o poi finiranno per integrarsi con vantaggio di tutti; quelli che non ce la fanno evidentemente non sono "adatti" e sarebbe sbagliato aiutarli. Quindi, basta lasciar fare alla natura, alla società in questo caso, e sbarazzarsi di coloro che falliscono, senza farsi carico di problemi che non ci competono. Mentre, se la storia fosse veramente maestra di vita, la multiculturalità andrebbe perseguita nell’interesse innanzitutto della comunità ospitante, onde evitare conflitti e profonde lacerazioni che hanno contraddistinto in passato altri paesi europei.

Anziché un banco di prova, per quanto impegnativo, delle sue strutture civili e democratiche, c’è il rischio che l’immigrazione possa diventare per il nostro paese una bestia nera. Sono evidenti - pur in presenza, lo ribadiamo, di una rilevanza quantitativa del fenomeno tutt’altro che elevata -, ritardi e immaturità sia del mondo politico, sia della società civile. Il governo sembra orientato a giocare la carta del rigore e senza far mancare agli imprenditori l’agognata manodopera, vuol tenere costantemente sulla corda gli immigrati, facilitando le procedure di espulsione. Gli stessi "governatori" (i presidenti delle regioni) del Nord Est d’Italia, ha ricordato Margherita Cogo nell’intervento di chiusura del Convegno, hanno criticato il disegno di legge Fini-Bossi, considerandolo un provvedimento di mero ordine pubblico, che non affronta i problemi reali dell’integrazione.

I sindacati, come è stato rilevato da qualche relatore, si trovano a mediare, non sempre con successo, tra la difesa dei lavoratori immigrati e spinte corporative a salvaguardia di vantaggi veri o presunti dei lavoratori italiani.

Gli imprenditori, che certo vedono di buon occhio la disponibilità di manodopera straniera, non esitano ad utilizzarla anche in nero, a sottoporla a sfruttamento e ad angherie in un clima generale di precarizzazione del lavoro, che investe anche i lavoratori autoctoni.

La Chiesa cattolica, che spesso predica bene e razzola male, questa volta spesso predica anche male. Sia agli alti livelli della gerarchia che a livello di singoli preti, esprime posizioni di fondamentalismo e di discriminazione mal sopportate o decisamente respinte da molti cristiani, da Associazioni e loro operatori. Le Associazioni stesse, poi, cattoliche o laiche che siano, peccano spesso - è stato rilevato - di eccessivo legalismo. Nel senso che non solo si trincerano dietro la normativa, la Legge, ma talora fanno proprie interpretazioni della legge del tutto arbitrarie (da parte, ad esempio, di alcune Questure).

La gente, poi, è disorientata, è spesso in balia di paure (il diverso visto come un attentato alla propria identità) ed invidie (quando l’Ente pubblico prende qualche provvedimento a favore degli immigrati), aiutata in ciò sia da una vergognosa campagna demagogica, fomentatrice di odio e disprezzo, posta in atto da certi partiti e da certi gruppi, sia dalla presenza di non esigue fasce di marginalità anche fra la popolazione italiana, che innescano a volte una "guerra tra poveri". E si fa presto, allora, a fare di ogni erba un fascio, a far emergere come connotato prevalente nell’analisi quello della clandestinità, equiparata tout court alla criminalità; o addirittura a considerare tutti gli immigrati islamici quali protervi fondamentalisti religiosi o "dormienti" terroristi. O a considerare il problema della sicurezza, come esclusivo degli italiani, senza considerare che uguale esigenza hanno pure gli immigrati. E’ la mancanza di reciproca conoscenza, ha detto Breigeche, ad alimentare stereotipi e pregiudizi, a tenere in piedi e ad innalzare muri, quando si dovrebbero costruire ponti.

In Trentino, fortunatamente o per meglio dire a causa della radicata tradizione di solidarietà, di spirito cooperativo, di diffuso associazionismo, che caratterizza questa terra storicamente di emigrazione, non sono emersi finora atteggiamenti gravi di intolleranza. Eppure negli ultimi tre anni - ha ricordato Passerini - è più che raddoppiata la percentuale (17%) dei cittadini che percepiscono gli immigrati come un potenziale pericolo. Guai, quindi, ad abbassare la guardia, specialmente in una situazione, come l’attuale, di impasse politico e di legislazione provinciale carente - ha ricordato il senatore Renzo Michelini - attardata al 1990, alla fase emergenziale dell’immigrazione.

Il Convegno, coordinato dalla vicepresidente del Forum per la Pace Lucia Coppola, non ha certo lesinato spunti utili. Interessanti relazioni hanno illustrato le esperienze di alcune amministrazioni comunali e provinciali, in ordine al riconoscimento dei diritti di cittadinanza. Alcune città delle Marche, dell’Emilia, Romagna, Toscana, Lombardia, Veneto hanno già istituito, a fianco del consiglio comunale, un consiglio aggiuntivo degli stranieri, con funzioni di consulenza. Questi rappresentanti degli stranieri sono stati eletti direttamente, o indirettamente attraverso la designazione da parte delle loro associazioni.

E il sindaco di Rovereto, Roberto Maffei, nel portare il proprio saluto al Convegno, ha confermato che analoga strada è stata scelta per la Città della Quercia e dovrebbe trovare attuazione già nel prossimo anno. Sarà il primo comune nella nostra provincia ad attuare questa sperimentazione, ma dovrebbero seguirne altri. Infatti, il vicepresidente del Consorzio dei comuni trentini, Alessandro Olivi, ha annunciato che verrà proposto a tutti i comuni l’inserimento negli statuti di una norma provvisoria che preveda l’elezione di rappresentanti degli stranieri nel consiglio comunale, senza diritto di voto, ma con diritto di parola. E la presidente Cogo ha ribadito l’impegno di attribuire maggiori competenze ai comuni, in ottemperanza al principio di sussidiarietà.

I problemi legati a queste realizzazioni sono molti, perché si tratta di garantire la rappresentanza di tutte le comunità straniere presenti e spesso, ha fatto notare Erica Mondini, consigliera comunale di Rovereto, gli immigrati non hanno l’abitudine alla democrazia, non sono abituati ad esprimere un voto di scelta. Fondamentali, anche a questo scopo, sono pertanto le associazioni degli stranieri, che più in generale costituiscono il primo supporto all’inserimento e ai rapporti con le istituzioni. Un ruolo che è stato sottolineato come essenziale da tutti i relatori.

Altro punto programmatico del Convegno era l’analisi della funzione strategica della mediazioni interculturale, che può essere svolta - come di fatto avviene frequentemente - anche dagli stranieri, purché abbiano conoscenza della nostra lingua e un’adeguata preparazione culturale. Se riduttivamente - ha spiegato la sociologa Nora Lonardi dello Studio RES di Trento - la loro funzione è quella di tradurre/interpretare o al più di "accompagnare" l’immigrato nelle istituzioni, di fatto il compito si è esteso spesso a macchia d’olio (dalla custodia dei bambini, al pronto intervento sanitario).

Nel suo significato più pregnante il mediatore dovrebbe essere una specie di difensore civico, in funzione antidiscriminatoria, creatore di pari opportunità nel rapporto cittadino immigrato istituzioni. E’ una figura che se nella scuola ha trovato le prime ed ovvie applicazioni, non può più mancare in altri settori, specialmente nella sanità e nelll’assistenza.

Sullo sfondo di queste e di altre esperienze, nei vari interventi sono emerse differenti concezioni sulla maniera di pervenire all’integrazione degli immigrati, sul modo di affrontare questa sfida. C’è chi pone l’accento sull’aspetto pedagogico-educativo, come Valter Reggiani del Comitato di presidenza dell’Organismo Nazionale di coordinamento per le politiche d’integrazione sociale degli stranieri, un ente che fa capo al CNEL. Anche la legge migliore - ha osservato - risulta inefficace se calata in una realtà di immaturità sociale, dove la gente sia vittima di prevenzioni e pregiudizi.

Concetto sottolineato anche da Adel Jabbar, sociologo di Ca’ Foscari, secondo il quale "la normativa italiana è più avanzata della prassi". Ecco l’importanza perciò, in questa prospettiva, del confronto, della discussione, del convincimento.

C’è chi invece, come Salvatore Palidda, sociologo dell’Università di Genova, indica la necessità di praticare subito i diritti, in ogni realtà microsociale: il posto di lavoro, la scuola, il condominio, il quartiere, la parrocchia, l’associazione sportiva, qualsiasi luogo dove vengano disattesi i diritti degli stranieri. Occorre quindi, accanto all’attività vertenziale e di tutela legale di sindacati e associazioni, una capacità di mobilitazione della gente, la disponibilità delle persone ad esporsi, a contestare.

E c’è infine chi sottolinea l’importanza determinante di un quadro normativo adeguato. "Meglio una cattiva legge che nessuna legge" - ha affermato una relatrice.

In effetti tutte queste strade, lungi dall’escludersi, convergono verso l’unico obiettivo. Si tratta di modi di vedere che rispecchiano diverse sensibilità personali, ma che inevitabilmente devono intrecciarsi e fare sinergia.

Di politiche abitative si sono occupati specialmente Palidda e Reggiani. Come è risaputo quello della casa è un problema che diventa particolarmente pesante nella fase di stanziamento permanente di nuclei familiari di stranieri. Su questa esigenza, accanto a interventi delle pubbliche amministrazioni, è venuto a formarsi un mercato parallelo di greve speculazione: affitto di tuguri a prezzi elevati, combinato col rifiuto di affittare abitazioni decorose agli immigrati e alle loro famiglie. Una problematica questa, come d’altronde quella del lavoro nero e sommerso, che coinvolge anche strati marginali non irrilevanti della popolazione autoctotona e che può dar luogo a contrapposizioni, ma che in positivo potrebbe diventare oggetto di un impegno congiunto italiani-immigrati.

Non possiamo non accennare infine all’attenzione particolare che il Convegno, un convegno-fiumana fin troppo denso di comunicazioni, ha riservato al mondo femminile dell’immigrazione. Ma è un punto questo, che per le tematiche specifiche e per l’ampiezza dei problemi sottesi, meriterebbe una trattazione a parte.