Menù
Home
QT
Questotrentino
Mensile di informazione e approfondimento
Utente
Cerca
QT n. 13, 30 giugno 2001 Cover story

Immigrati: il sogno della normalità

Vivono e lavorano con noi, e sono destinati a rimanere; ma normative assurde e contraddittorie, disinteresse e resistenze delle istituzioni rendono impossibile un pieno inserimento. Questi gli ostacoli da superare, più ancora che l’intolleranza di pochi.

Proprio davanti alla questura, qualche giorno fa, un amico mi diceva: ‘Antonio, sono passati 12 anni e parliamo ancora delle stesse cose’. Ed è vero…"

Antonio Rapanà, responsabile dell’Ufficio Immigrati della CGIL

Antonio Rapanà, responsabile dell’Ufficio Immigrati della CGIL, col quale proseguiamo il discorso sulla vicenda migratoria italiana e trentina avviata nel numero scorso con Massimo Giordani, appare sconfortato; e ci fa l’esempio emblematico, ripetutamente affacciatosi alle cronache dei giornali, delle code di immigrati davanti agli uffici della questura di Trento: "Fin dal ’96 avevamo avanzato un progetto per l’istituzione di sportelli, sparsi sul territorio e con personale comunale e delle associazioni, che distribuissero materiale informativo riguardante leggi e moduli, in modo che le persone non dovessero perdere delle giornate intere magari per una semplice informazione. Da lì, poi, per via telematica, si sarebbero potuti fissare gli appuntamenti alla questura per il disbrigo delle pratiche. Può apparire una questione di poco conto, ma sono di quelle cose che ti danno la sensazione di essere trattato come una persona e non come un fastidio; che ti danno la dignità, e la certezza di un percorso. Il progetto è stato presentato prima al Comune di Trento, poi alla Provincia: in entrambi i casi abbiamo avuto in risposta apprezzamenti e mezzi impegni. Avevamo anche già preparato il materiale informativo, ma alla fine non se n’è fatto niente. E così, da anni, continua a succedere che uno debba alzarsi alle quattro di notte per fare la coda, o che per definire una pratica sia costretto a venire 3-4 volte da Storo a Trento… Non riuscire a spuntarla nemmeno su una questione in definitiva così semplice ti dà uno sconfortante senso di impotenza".

Diversamente da quello che ci si potrebbe aspettare, i disagi, le preoccupazioni e le lamentele degli immigrati e di chi - sindacati e associazioni - se ne occupa, non riguardano, almeno in Trentino, tanto l’intolleranza di parti della società e del mondo politico: certe sparate, a volte, fanno perfino sorridere (il leghista che come frutticoltore vuole più stranieri, ma come elettore chiede la chiusura delle frontiere).

Il guaio sono il disinteresse e le resistenze delle amministrazioni, le circolari ministeriali restrittive, tutti quegli atteggiamenti insomma che, smentendo delle leggi teoricamente condivisibili come la Turco-Napolitano, impediscono il pieno inserimento anche di chi è qui con una famiglia e un lavoro, perché lo fanno comunque sentire diverso.

L'ingresso di Shangrillà, l'associazione interetnica fallita miseramente, e ricordata con nostalgia.

E’ per questo che, nonostante i conflitti interni, i pasticci amministrativi, e la fine ingloriosa, Rapanà ricorda con qualche nostalgia (e non è il solo) l’esperienza di Shangrillà, unico concreto tentativo attuato in Trentino di dare protagonismo ai lavoratori immigrati e di avviare un’esperienza interetnica: "A Shangrillà si sentivano a casa loro, sia pure con i problemi inevitabili dell’incontro fra culture diverse, fra persone che in molti casi non avevano esperienza di partecipazione democratica, di trasformazione dei bisogni in diritti. La consideravano come una cosa propria, e non un ghetto, ma un luogo di confronto paritario con gli italiani.

La politica trentina sull’emigrazione, soprattutto agli inizi, ha conseguito risultati importanti: ha saputo tamponare l’emergenza riuscendo così ad evitare situazioni conflittuali ed episodi di intolleranza. Ma l’immigrato è comunque rimasto un semplice fruitore di servizi, non è mai diventato un cittadino. Gli interventi, delegati alle associazioni, sono consistiti appunto nell’erogazione di servizi, nell’idea che gli immigrati siano un segmento separato, che necessita di interventi ‘speciali’, mentre invece gli stranieri fanno parte a pieno titolo della nostra società, ed i loro bisogni andrebbero tenuti presenti per ripensare le politiche sociali riguardanti l’intera comunità".

Questo disagio di non sentirsi cittadini, che permane anche in gente immigrata da un decennio, non è un astratto stato d’animo, provocato magari da qualche impiegato che allo sportello si comporta maleducatamente: è mancanza di certezze, è una situazione normativa che spesso si contraddice. Ad esempio, la già citata legge Turco-Napolitano, che pure ha prodotto qualche positiva innovazione (soprattutto nella scuola), è stata poi massacrata da successive circolari. Un esempio è quello dei minorenni non accompagnati, sui quali associazioni e assistenti sociali stavano intervenendo per aiutarli in un percorso che evitasse emarginazione e conseguente criminalità: ma ecco che una circolare proibisce il lavoro a questi minori e prescrive che al raggiungimento della maggiore età vengano rimpatriati. Al che tutto il lavoro fatto salta per aria: se uno non può lavorare e sa che poco tempo dopo sarà espulso, perché mai dovrebbe cercare di fare il bravo, di integrarsi?

Un altro esempio riguarda la carta di soggiorno. A differenza del permesso di soggiorno, questo documento, che viene concesso agli immigrati regolarmente in Italia da 5 anni, è a tempo indeterminato e dà diritto a prestazioni assistenziali come la pensione sociale o di invalidità, e prevede l’espulsione solo in caso di reati gravi (col permesso di soggiorno l’espulsione scatta se solo resti senza lavoro). Ebbene, la Finanziaria per il 2001 ha stabilito che per ottenere questa carta l’immigrato dimostri di avere un rapporto di lavoro a tempo illimitato. E questo proprio mentre ormai da parte di tutti si intona il peana alla flessibilità, e mentre il 74% delle nuove assunzioni (di italiani e di stranieri, si badi bene) è a tempo determinato.

"Dal governo Berlusconi – ironizza Rapanà - abbiamo di che temere; ma il centro-sinistra ci ha già abituato…".

Un ulteriore elemento che ostacola la normalità è notoriamente il problema abitativo: "In passato, con gli ostelli, le associazioni hanno fatto un lavoro importante. Ma da qualche anno il problema sono le famiglie, il cui arrivo dovrebbe costituire un momento importante di inserimento. Ma per un nucleo familiare di cittadini stranieri le possibilità sono due: sistemazioni precarie in edifici fatiscenti, o il normale mercato, nel quale però agli immigrati vengono chiesti canoni di affitto diversi, più elevati che non agli italiani. In quest’ultimo caso, i single se la cavano, andando a vivere in molti in un appartamento e dividendosi la spesa, mentre una famiglia con un solo reddito non ce la fa".

Il discorso prosegue toccando il tema del lavoro: "L’immigrazione non è una cosa a parte, un di più: è un elemento costitutivo della trasformazione, del mercato del lavoro, che ci riguarda tutti. Gli immigrati vivono con noi, per le strade, sui luoghi di lavoro, vogliamo prenderne atto? E invece se ne parla quasi sempre come emergenza, in due sensi, entrambi strumentali: da un lato come questione di ordine pubblico e dall’altro come necessità impellente di manodopera. Di una manodopera disponibile non solo a lavori disertati dagli italiani, ma soprattutto a condizioni di lavoro che gli italiani non accettano più. Questa precarizzazione, questa perdita di diritti non è stata prodotta dagli immigrati; è stata, al contrario, la causa per cui gli italiani hanno progressivamente abbandonato certe mansioni. Dopo di che, a coprire i vuoti, sono sopraggiunti gli immigrati. Ciò è accaduto soprattutto nell’edilizia, nel settore estrattivo e nel turismo. Ma anche nell’industria, e quando si tratta di operai qualificati, gli immigrati sono molto spesso soggetti a tipologie contrattuali deboli, diverse. Sono le prove generali di quella deregulation che qualcuno considera la premessa indispensabile per il nuovo miracolo economico italiano. Dunque, il problema riguarda anche i lavoratori italiani e il sindacato: è sbagliato pensare di poter difendere i propri diritti lasciando indifesi gli stranieri: quello applicato agli immigrati è un modello di precarietà destinato ad estendersi a tutto il mondo del lavoro. Dunque, non si tratta di invocare la solidarietà, ma di ricordare che il sistema dei diritti è un tutt’uno".

Quali sono le situazioni per le quali i lavoratori stranieri si rivolgono più frequentemente al sindacato?

"Più o meno sempre le stesse: lavoro nero, con paghe scandalose (ci sono salari di 500.000 lire al mese per le lavoratrici domestiche) e relative conseguenze sul piano della sicurezza, straordinari e ferie non riconosciuti, retribuzioni per mansioni inferiori a quelle effettivamente svolte, rapporti personali difficili… Insomma, un mancato riconoscimento di diritti che l’immigrato, in un primo tempo, accetta, anche perché poco informato. Solo in un secondo tempo, quando capisce l’ingiustizia, si ribella. E a quel punto magari viene licenziato, paradossalmente proprio quando, integratosi, diventa uguale ad un lavoratore italiano. E viene sostituito con un altro immigrato disposto ad accettare quelle condizioni. Insomma, più lo straniero diventa cittadino, meno risulta appetibile in certi comparti del mercato del lavoro.

Bisogna però ricordare anche i ruoli imprenditoriali assunti dagli immigrati più intraprendenti: certe volte si tratta di pura apparenza, come nel caso di quegli operai che si sono messi in proprio - cambiando ben poco le proprie condizioni - su spinta del datore di lavoro, che poco per volta si trasforma da produttore in commercializzatore. Ma c’è anche un’imprenditoria vera, nei settori dell’artigianato, dei trasporti, della ristorazione, che è riuscita a raggiungere anche posizioni importanti".

Un lungo discorso meriterebbero infine i molti miti che si sono formati, o sono stati creati ad arte, attorno alla figura dell’immigrato, a cominciare dall’equazione clandestino uguale delinquente. "Ci si dimentica che la maggior parte dei lavoratori immigrati sono entrati in Italia irregolarmente, con permessi turistici, e in seguito si sono regolarizzati grazie alle sanatorie. E clandestine sono le migliaia di donne, soprattutto provenienti dall’Europa dell’est, preziose nel risolvere tante situazioni di assistenza ai malati e agli anziani, e impossibilitate a regolarizzarsi perché le quote previste nei flussi sono già esaurite.

A proposito di flussi: l’ultimo decreto in materia non ha concesso autorizzazioni all’ingresso per le regioni meridionali, motivando la decisione col fatto che nel sud ci sono tanti disoccupati. Ma non credo che i diplomati napoletani andranno a raccogliere i pomodori; e così ecco un altro incentivo ad ingressi illegali".