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QT n. 14, 13 luglio 2002 Servizi

L’assalto alla sanità pubblica

Centro-destra a Roma, centro-sinistra a Trento: ma la filosofia con cui si gestisce la salute pubblica è più o meno la stessa.

In Italia e in Trentino si spende troppo per la sanità. Le regioni sprecano, tutte. Sono ritornelli che ormai ci travolgono e che ci hanno convinto come questi assunti siano reali. Piovono quindi provvedimenti che impongono ticket sui farmaci, sui ricoveri, sulle prestazioni dei Pronto Soccorso, ticket diversificati in ogni angolo d’Italia.

Ma i ticket, sostenuti anche dal centro-sinistra, non sembrano risolvere alcun problema presente nel settore. Il governo nazionale di destra, il governo dei "pasdaran del liberalismo", ha trovato la soluzione definitiva, la parola magica, privatizzazione.

Ha fatto da apripista la Lombradia del cattolico Roberto Formigoni, segito a ruota, con ritmi burocratici da Formula 1, Lazio, Veneto e Puglia. Il modello è quello imposto in Gran Bretagna dalla signora Thatcher. I nostri governanti non vogliono sentirsi dire che a causa delle imposizioni privatistiche di quei governi la sanità britannica è al collasso e mostra segni di inefficienza e di degrado, che aumenta la mortalità infantile. Non vogliono leggere i programmi delle destre francesi e tedesche che invece difendono i servizi sanitari uguali per tutti. No, il ministro alla sanità Sirchia, sostenuto dal collega economista Tremonti, attacca: "Negli ospedali italiani non ci vanno nemmeno più gli zingari".

A proposito della situazione italiana la pensa esattamente all’opposto l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Nel suo ultimo rapporto, "World Health Report 2000", il nostro sistema sanitario pubblico conquista l’eccellenza: su 191 paesi analizzati si piazza al secondo posto, dietro la Francia, mentre la Svezia si piazza solo 23a e gli Stati Uniti 37i. Nel Rapporto l’OSM dice anche che solo i sistemi sanitari pubblici riescono a coprire la prestazione sanitaria uguale per tutti e conferma come solo questi riescano a rispondere con efficacia ai tre criteri principali: il miglioramento delle condizioni generali di salute, la risposta alla domanda di salute e l’equa distribuzione delle risorse.

Ma anche riguardo all’efficienza l’Italia raggiunge risultati strabilianti. Si piazza al terzo posto, anticipata solo dall’Oman e da Malta, anticipa la Francia, distanzia altri grandi democrazie europee. In Italia, nonostante si spenda solo il 6% del Pil in sanità, l’efficienza è nettamente superiore ad altri paesi che hanno spese alte, come gli Stati Uniti, che investono nel settore l’8% del Pil.

Nonostante la loro importanza, questi dati non hanno smosso la stampa nazionale: abbiamo letto solo rilievi marginali, privi di analisi, sia a destra che a sinistra.

Ecco perché le attuali politiche governative possono garantirsi successi mediatici importanti. Si fa passare l’idea che sanità privata sia sinonimo di efficienza, di qualità e di risparmio. Nulla di più falso, lo dice l’OSM.

Nel privato - è sufficiente studiare le situazioni anglosassoni - si verificano questi percorsi. I ricchi vengono curati fino all’eccesso, dentro le cliniche private ovviamente, da loro si ottengono grandi margini di profitto e generalmente su patologie di minore importanza e gravità, quindi con assenza di mortalità.

Nel pubblico opera anche il luminare, in Italia si è dato via libera alla doppia professione dei medici, ora si vuole far passare quella infiermeristica. Il primario trattiene presso la struttura pubblica le situazioni più delicate, o perché prive di sbocchi positivi, o perché il percorso clinico è poco costoso. Nel pubblico impone l’insieme degli esami, di laboratorio o radiologici, e avvia al suo studio privato le visite di dettaglio, l’analisi dei referti. Raddoppiano così i costi, raddoppiano i passaggi obbligati del paziente e il medico pubblico costruisce e consolida la sua clientela presso lo studio privato per il quale lavora.

I non abbienti si rifaranno al pubblico per le cure più costose e difficili, anche per la presenza contemporanea di specialisti diversi. Le complicazioni al pubblico dunque, l’albergo-cura al privato. Ecco come si spiegano quelle statistiche, che vedono aumentare il tasso di mortalità nel pubblico e ridursi drasticamente nel privato.

Ma i numeri importanti non sono solo questi. Il governatore della Lombardia Formigoni, grazie alle sue politiche di sostegno alla sanità privata e agli ospedali accreditati, dal 1995 al 1999 ha visto aumentare del 3,6% i ricoveri nelle strutture pubbliche, del 58% in quelle private. Nello stesso arco di tempo ha aumentato i finanziamenti pubblici alle strutture pubbliche del 12,7% e a quelle private del 45,6%. L’intento è quello di abbattere la riforma Bindi per perseguire scopi non certo nobili:

- affidare alle fondazioni private il fondamentale settore della ricerca, affinché abbia collegamenti diretti con le esigenze produttive e di profitto delle industrie farmaceutiche;

- aumentare e consolidare convenzioni e accrediti con istituti privati;

- evitare contratti pubblici per affidarsi al settore privatistico, molto più ricattabile;

- costruire la presenza di 21 filosofie sanitarie diverse, tante quante sono le regioni.

Questa ingiustificata apertura ai privati si pone un obiettivo non molto lontano: imporre l’obbligo assicurativo e costruire una sanità a misura di portafoglio, come denuncia (sempre più inascoltata) l’ex ministra Bindi.

Se questo è il quadro nazionale, il Trentino, ormai da oltre un decennio, lavora per consolidare un percorso non molto dissimile. Anche qui non si fa distinzione fra politiche di destra e di sinistra. La questione sanitaria, dal momento del varo dell’Azienda unica, è divenuta una questione aziendale, di gestione puramente ragionieristica del settore. I piani-obiettivo tanto pubblicizzati non subiscono controlli e verifiche di percorso: i dirigenti, al di là dei risultati raggiunti, percepiscono le loro quote di salario aggiuntivo senza approfondimenti. La prevenzione è un termine che si usa ormai solo nei convegni o nei programmi elettorali, ma è totalmente scomparsa dalle politiche territoriali; le strutture sanitarie risultano sempre più indefinibili, sia nelle specialistiche offerte che nel personale presente.

La formazione del personale è assente, gran parte del personale laureato, quello che vive ancora motivazioni e un minimo di orgoglio, è costretto a pagarsi i corsi fuori regione e a sostenerli con periodi di ferie. La lobby dei primari trentini sta imponendo la concentrazione di tutti i servizi e lo smantellamento della rete sanitaria della periferia. Si pensa di consolidare sul territorio una rete ospedaliera che abbia un’unica testa: l’ospedale centrale di Trento.

L’obiettivo non è forse sbagliato, ma il metodo intrapreso potrebbe risultare devastante per la nostra società. Prima di concentrare tutte le risorse nel punto di eccellenza si dovrebbero definire con chiarezza le specificità dei diversi territori, quali risposte sia necessario fornire in via prioritaria alle popolazioni che vi vivono e quali servizi o risposte sanitarie vadano invece dislocate altrove.

Nel richiedere queste attenzioni non si sta facendo quella che, con poca sensibilità, il Presidente del Consiglio provinciale Mario Cristofolini definisce "lobby delle periferie".

Pochi giorni fa, mentre si presentavano le linee guida della revisione del Piano Urbanistico provinciale, un affermato docente sottolineava due obiettivi fondanti di riforma: riprendere la memoria del territorio e consolidarvi identità. Come? Offrendo e potenziando i servizi nelle valli.

Finalmente ci si è accorti che le valli non si spopolano perché mancano impianti sciistici o strade veloci, ma perché vengono impoverite di servizi essenziali: formazione scolastica, assistenza alle famiglie, ai giovani, assistenza sanitaria. Ci si è accorti che chiedere un medico in più o alloggi per gli insegnanti non significa rincorrere esigenze clientelari di una categoria, ma consolidare sul territorio della periferia conoscenze di alto profilo, significa investimento culturale, significa costruzione di una prospettiva di sviluppo stabile, significa risposta a bisogni reali.

Certo, quando si legge che la Giunta provinciale intende cancellare dalle periferie i centri di ostetricia e ginecologia e li chiama "punti nascita", quando indebolisce traumatologia, quando lavora per lo smantellamento dei laboratori clinici, ci si chiede quale schizofrenia si viva nel palazzo. Un assessore, Roberto Pinter, richiama il valore delle periferie, fornisce loro il sigillo del marchio di garanzia del Trentino del futuro, e dall’altra parte, nella stessa Giunta, si lavora per l’umiliazione, l’impoverimento delle periferie.

Una cosa è certa: con la costruzione dell’Azienda sanitaria unica il Trentino ha anticipato molti dei percorsi culturali che caratterizzano le politiche del centro-destra: in un decennio, nel mondo della sanità si è imposta una lettura solo economicista, si sono cancellati la presenza di valori e di diversità importanti del nostro territorio. Si è costruita una forbice sempre più ampia fra le sensibilità presenti nelle nostre periferie e quelle oltremodo garantite di chi abita nei due centri maggiori, Trento e Rovereto. Continuando su questi tracciati, si arriverà a dover misurarci con provvedimenti simili a quelli imposti al bellunese: chiusure di ospedali, tagli di posti letto, scadimento di professionalità.

E vedremo sorgere sul nostro territorio una miriade di centri privati che forniscono risposte che la sanità pubblica non vuole più soddisfare: équipes mediche che si riuniscono in società, laboratori di analisi, centri ortopedici e di fisioterapia. Destinati ovviamente ad offrire risposte solo a chi dispone di portafogli oltremodo flessibili.