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QT n. 2, 25 gennaio 2003 Monitor

“Il Signore degli anelli, Le due torri”: magie tecnologiche

Il secondo episodio della trilogia "Il signore degli anelli" del neozelandese Peter Jackson.

Il secondo episodio de Il Signore degli Anelli conferma il carattere di intrattenimento di alto livello già esibito nella prima parte della trilogia. Il film continua da dov’era finito La Compagnia dell’Anello: il gruppo che si sfalda, da una parte i due hobbit, uno dei quali è il detentore dell’anello Frodo Baggins, da un’altra, a combattere orchi, l’uomo, il nano e l’elfo.

Il racconto, concepito come un unico flusso narrativo e non come somma di tre storie, non fa nemmeno un tentativo accennato di riassumere la puntata precedente. Può creare quindi qualche difficoltà a chi si fosse perso il primo episodio, e non sa cosa sia l’anello, dove lo hobbit lo stia portando, o chi siano le forze del male e quali armate esse muovano.

Ma basta lo sfarzo visivo a condurre non solo i lettori del migliaio di pagine di Tolkien ma anche i non adepti dentro questo raro caso di kolossal non americano. Il mondo dove Tolkien ambienta una delle versioni letterarie più ambiziose della sfida tra il bene e il male è chiamato Terra di Mezzo. Per il regista Peter Jackson, neozelandese, la Terra di Mezzo è la Nuova Zelanda. Il proscenio naturale si confonde in ogni inquadratura con gli effetti speciali digitali, che nella loro onnipresenza rendono indistinguibili reale e virtuale. Forse è proprio l’impressione di effetto speciale già propria del paesaggio di queste isole a rendere così conciliabili le scomposizioni e ricomposizioni digitali dei loro orizzonti. Questa fusione ha il merito di rendere la totalità degli ambienti del film riusciti e fascinosi: pianure, montagne innevate, foreste; e poi bastioni, fortezze, fucine…

Peter Jackson, va ricordato, non è affatto un regista prezzolato, ma l’ex autore splatter che ha poi realizzato Creature del cielo o quella vera e propria chicca per cinefili che si intitola Forgotten Silver, finto documentario su un misconosciuto genio neozelandese del cinema muto. La presunta caratterizzazione di destra dell’opera di Tolkien (c’è chi l’ha definita l’unico tentativo riuscito di portare un prodotto di destra all’egemonia culturale) trova quindi un contraltare efficace nell’anarchia di Peter Jackson, che usa appena può le armi dell’ironia per ridurre la magniloquenza della prosa dello scrittore inglese. Eppure, allo stesso tempo, il regista prende tremendamente sul serio il compito di trasportare in video questa saga: nove ore di film divise in tre parti della stessa durata. Tanto che, in certi momenti, pare che la pellicola sia felicemente costretta a tirarsi dietro, nella loro versione cinematografica, tutte le epiche lontane e recenti: Shakespeare, il western, la Tavola Rotonda, Guerre stellari, i cappa e spada di Hong Kong.

La narrazione è corale e non prevede un protagonista assoluto, quale nel primo episodio era sicuramente Frodo. Anche la ricchezza principale della Compagnia dell’Anello - i passaggi, le pause luminose fra i momenti d’azione - esce un po’ sacrificata dalla recrudescenza degli scontri tra eserciti. Se nel primo film la parte che forse rimane più impressa è quella della pacifica discesa nel fiume tra i due giganti di pietra, nelle Due Torri il climax viene realizzato nel finale, la scena buia della battaglia per la conquista del Fosso di Helm.

E’ stupefacente constatare la perfezione degli effetti speciali, che creano profondità di campo, generano alberi che camminano, ricostruiscono in 3D gli assalti dell’esercito del male alla fortezza. Impressionante, ad esempio, la naturalezza del movimento delle scale cariche di orchi che si alzano con una rotazione da terra per andare ad appoggiarsi alle mura di difesa. Anche quello che alla fine risulta essere il più affascinante dei personaggi, Gollum, un essere che il possesso temporaneo dell’anello ha reso un mostro schizofrenico, è frutto di una sovrascrittura tecnologica: un attore vero (Andy Serkis) dà in prestito la sua faccia e i suoi movimenti all’équipe degli effetti digitali. Ne esce una creatura paurosamente ibrida, presumibile nella sua componente umanoide e riuscita in quella mostruosa creata dalla tecnologia.

Nel finale, poi, colpisce l’occhio la grandiosità delle forze del male: dai bastioni della Fossa di Helm si vede un orizzonte completamente coperto dall’esercito dei quindicimila orchi, un’animazione realizzata con un software innovativo. Con questo strumento, il programmatore umano non deve più prevedere e tracciare i movimenti di ogni orco, dotato ora di un’intelligenza artificiale che dirige e adatta i passi del personaggio in base alla conformazione del terreno. In pratica, è come se ogni orco creato dal computer potesse, come un attore vero, decidere dove e come muoversi.

Il supervisore agli effetti speciali, in un’intervista, ci rende partecipi di un particolare curioso (benaugurante?): nella prima versione del software, molti orchi, pur programmati all’attacco, giravano subito le spalle alla battaglia per correre decisi e in piena autonomia in ritirata.

Se, effettivamente, il film è piuttosto bellicoso (ma la colpa è tutta delle forze del male), va anche citato l’affetto molto naïf con cui viene sottolineata la necessità di lottare per la salvezza della Terra di Mezzo, sulla base di una filosofia ecologista che vedrà schierati in un ruolo decisivo anche antichi alberi semoventi. Se il bene trionferà, lo sapremo però solo nel terzo e ultimo episodio, Il Ritorno del Re, programmato in uscita per il Natale del 2003.