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QT n. 19, 8 novembre 2003 Servizi

La croce dei laici

Il crocefisso nelle scuole: resoconto di un dibattito sempre più difficile.

L’impressione che promana dalle molte pagine di giornale dedicate alla questione del crocifisso nelle aule della scuola pubblica è quella di una crescente difficoltà. Le ragioni laiche fanno oggi fatica a farsi strada, al punto che sono davvero poche le voci che cercano di esprimerle. Quando due decenni fa si discuteva del concordato e dell’insegnamento confessionale, a indebolire in partenza il punto di vista laico, era l’inopportunità politica di aprire un conflitto su questo terreno, con il rischio di scavare un fossato tra la sinistra che si voleva riformatrice ed un centro cattolico, che riusciva ancora ad aggregare la maggioranza relativa dei consensi. Il confronto attuale è ancor più ipotecato dalla ricerca del consenso, ma si è aggiunta nel frattempo, a renderlo di stringente attualità e a complicarlo, l’immigrazione di massa.

E’ sempre stato difficile rappresentare il punto di vista di quella parte di italiani che non si riconoscono nel cattolicesimo come religione di stato né in altre definite identità religiose. Da quando alle minoranze storiche (ebrei, valdesi, ecc.) si sono aggiunte le nuove minoranze alimentate dall’immigrazione, è stato fin troppo facile assorbire la questione della laicità in una logica di contrapposizione di identità: noi e gli altri, gli ospitanti e gli ospitati. E poi, in un crescendo drammatizzato dal settembre 2001, ha preso corpo il fantasma dello scontro di civiltà, l’Occidente e l’Islam, la croce e la mezzaluna. Per avere un’immagine del condizionamento di questi fattori non occorre mettersi a chiosare gli editoriali di Guzzanti sul Giornale o di Feltri su Libero: i più significativi degli interventi apparsi sul civilissimo Corriere della sera hanno al centro proprio il tema del conflitto di civiltà. Per Piero Ostellino (27 ottobre), il crocifisso è il simbolo dell’Occidente, di per sé superiore e incomparabile ad ogni altra espressione storica e culturale: esso "non è più (solo) un simbolo religioso, bensì (anche, se non soprattutto) il simbolo della cultura giudaico cristiana, che, a sua volta, si è storicamente, politicamente, socialmente e persino economicamente, oltre che eticamente, concretata nelle forme attraverso le quali si sostanzia la nostra civiltà. Una civiltà, quella giudaico-cristiana, che, piaccia o no, ha prodotto più libertà, più giustizia, più benessere di ogni altra e che, piaccia o no, si è rivelata, quindi, più fertile di ogni altra per l’affermazione della personalità e della dignità degli uomini in carne e ossa".

Se per Ostellino è insensato relativizzare questo umanesimo trionfante, è dunque altrettanto insensato mettere in discussione il primato di questo suo simbolo. Contesta da destra questa riduzione del Cristo a emblema dell’Occidente Renato Farina su Libero: "Appendete la foto di Ciampi, magari persino quella di Bush: ed io apprezzo molto entrambi; se poi un giorno dovessimo applicare ai muri pure il ritratto di Berlusconi, meglio ancora. Ma il Nazareno è unico, una persona, non un simbolo. (…) Ci guarda, bisogna rispondergli. Per amare l’Occidente bastano il vino e la coca cola".

Ma torniamo al Corriere. In un bilancio della vicenda preoccupato e poco esplicito, Angelo Panebianco sembra suggerire che una scuola laica sarebbe una miglior difesa verso l’Islam che non una scuola impregnata di simboli e linguaggi religiosi: "A differenza della Francia (ma anche della cattolicissima Spagna), l’Italia non disporrà di alcuna arma, nei prossimi anni, per impedire la trasformazione della scuola pubblica in un bazar multireligioso, in cui l’Islam organizzato, soprattutto, entrerà in forze prevedendo visibilità, spazi, la sua parte di ‘bottino’. Allora sì che ci saranno seri problemi per la laicità dello Stato. E anche per la Chiesa che dovrà preoccuparsi ancor più di oggi per il fenomeno delle conversioni all’Islam" (3 novembre).

Il confronto con l’Islam compare (in ben altri termini) anche nella conclusione del più limpido e stringente intervento di parte laica, quello di Gian Enrico Rusconi, pubblicato come fondo della Stampa il 27 ottobre. Rusconi riassume il suo punto di vista in cinque punti. "Primo: nessuno può ragionevolmente negare che il Crocifisso faccia parte della nostra storia, che sia un elemento costante e intimo della nostra espressione artistica. Simbolo di umanità sofferente e di messaggio di amore universalistico. Ma proprio per questo non dovrebbe essere arma di contrapposizione identitaria, addirittura con tratti etnonazionali. (…) Secondo: il Crocifisso, inteso come strumento identitario di civiltà rischia di perdere ogni contenuto positivo di fede (l’idea dell’uomo-Dio, della salvezza, della redenzione) per diventare un graffito culturale.(…) Terzo: si obietta che nel caso di cui si parla oggi, le posizioni sono rovesciate. E’ il crocifisso che viene rimosso, vittima di improprie ‘rivendicazioni identitarie di altri’. Questa osservazione è vera solo in parte, perché fraintende lo spazio laico della scuola come se fosse una palestra pubblica di fedi. Invece il principio laico garantisce - costituzionalmente - l’autonomia del singolo (e del suo gruppo di appartenenza, la famiglia innanzitutto) da interferenze improprie. (…) Quarto: ammesso che il Crocifisso sia un segno storico qualificante della nostra civiltà, è difficile sostenere che oggi la esaurisca. Le radici cristiane si fondono nel frattempo con le ragioni laiche. Questa è la forza dell’Occidente europeo anche davanti alla sfida islamica. Quinto: che un giudice italiano inviti a togliere il Crocifisso da un’aula scolastica, in nome dell’applicazione del principio della libertà di coscienza, non è un atto di soggezione ad una intimidazione fondamentalista. Al contrario. E’ il segno dell’universalismo; il rispetto degli uomini, della loro libertà e autonomia, plasticamente rappresentata nel codice religioso dal Crocifisso, ha trovato la sua espressione laica. Non è una vittoria dell’Islam, ma sull’Islam".

Rusconi aveva già ammonito per tempo, dell’importanza, dell’urgenza e della delicatezza di questo ordine di questioni nel suo libro "Come se Dio non ci fosse. I laici, i cattolici, la democrazia", ed è anche colpa nostra, colpa di tutti quelli che laici si definiscono, se non abbiamo colto quella occasione per un intenso dibattito ovunque. Chi scrive se lo portò dietro, quel libro, come una sorta di amuleto ben augurale, ad un dibattito del Consiglio comunale di Rovereto sulle preghiere nella scuola d’infanzia, in cui la costruttiva ed equilibrata risposta delle maestre alla sfida dell’interculturalità fu bollata come una vergogna. Non si è ancora esaurita l’indignazione che ci pervase quando ci toccò sentire sindaco e assessore all’istruzione di centrosinistra fare a gara con la destra nel denigrare quello sforzo di trovare ragionevoli soluzioni sul campo, fuori degli schemi obbligati.

Dell’opportunità di valorizzare l’esperienza concreta della scuola reale, certamente più avanzata delle polemiche ideologiche, ha parlato in questa occasione uno studioso di queste tematiche, Stefano Ceccanti, che abbiamo sentito in un riuscito dibattito mattutino sul "La 7". Il suo suggestivo appello a trasferire le decisioni in materia all’autonomia scolastica, come accade in Spagna, lascia un dubbio: non è che così si darebbe un’occasione permanente, agli imprenditori politici dell’intolleranza, per attizzare mobilitazioni sanfedistiche sempre più facili di un dialogo tra diversi?

In quello stesso dibattito televisivo, Tullia Zevi ha trovato parole efficacissime per capovolgere in positivo l’episodio abruzzese: non consideriamolo solo una provocazione, ha detto, ma "un sintomo" e "un’occasione". Finora questa potenzialità positiva non è stata colta, dalla cultura politica italiana: e se si può capire la prudenza dei dirigenti di partito, di fronte al bombardamento propagandistico da parte di crociferi di dubbia fede, sgomenta la scarsa reattività degli intellettuali, allineati in buona parte su quel banalizzante "non possiamo non dirci cristiani" che è riecheggiato di colle in colle.

Il Foglio ha il merito di aver pubblicato in ampi stralci (30 ottobre) la sentenza firmata a L’Aquila dal giudice Mario Montanaro. Commenta il riconoscibile e onnipresente giornalista che si sigla con l’icona di un elefante: "C’è un giudice all’Aquila? C’è. Il dottor Mario Montanaro può avere torto o ragione, ma argomenta in modo serio e pacato (…) è un giudice nutrito di cultura moderna (non è un delitto), un giudice che scrive un italiano più che accettabile e si destreggia con perizia nel diritto, che non è una scienza esatta custodita da sommi sacerdoti e che tutti abbiamo la possibilità, dobbiamo avere la possibilità di conoscere nel suo farsi". E pensare che Guzzanti aveva avuto il buon gusto, pochi giorni prima, di applicare alla persona di questo giudice le stesse categorie (da manicomio) adottate dal presidente del consiglio per rappresentarsi i giudici in generale…