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La catastrofe

Questa guerra non è nata il 7 ottobre scorso…

Mentre scrivo i notiziari riportano le dichiarazioni del segretario generale dell’ONU Guterres che sono arrivate come un brusco richiamo alla realtà per chi, da troppo tempo, è abituato a pensare che certi stati siano esentati dal rispetto del diritto internazionale. Vale la pena riportale. Dopo aver chiesto un "cessate il fuoco immediato" a Gaza, nel corso di una riunione del Consiglio di sicurezza dell'Onu il 24 ottobre, Guterres ha denunciato "chiare violazioni" dei diritti umani a Gaza.

Fin qui nulla di nuovo, dal Papa ai capi di stati piccoli e grandi c’è stato un coro di richieste e denunce di questo genere negli ultimi giorni. Ma quel che segue nel discorso di Guterres è la vera novità. Dopo una premessa inequivocabile ("Siamo chiari. Nessuna parte in un conflitto armato è al di sopra del diritto umanitario internazionale"), arriva la sostanza durissima in due sole frasi: gli attacchi di Hamas "non sono sorti dal nulla. Il popolo palestinese è stato sottoposto a 56 anni di soffocante occupazione", a partire dalle demolizioni di case e vessazioni continue, anche se – precisa Guterres – "le sofferenze del popolo palestinese non giustificano l’attacco di Hamas".

Si tratta della prima volta dopo quasi venti giorni di bombardamenti a tappeto su Gaza che una voce così autorevole si leva a richiamare Israele alle sue responsabilità storiche (i “56 anni di soffocante occupazione”) e a quelle presenti (nessuno “è al di sopra del diritto internazionale”).

La mazzata è stata sentita in tutta la sua portata da Israele se subito il suo ambasciatore all’Onu Gilad Erdan ha scompostamente richiesto le dimissioni di Guterres, il ministro degli Esteri Eli Cohen ha annunciato che non incontrerà Guterres e, da ultimo, Israele non rinnoverà i visti ai funzionari dell’ONU presenti nel territorio di Gaza (dove peraltro decine di operatori ONU sono morti o rimasti feriti sotto bombardamenti indiscriminati). Ma le parole di Guterres suonano come brusco richiamo di questo supremo arbitro morale della politica internazionale anche a quelle torme di giornalisti e commentatori irreggimentati che hanno continuato a vedere solo in Hamas l’origine e il responsabile unico di questa guerra, dileggiando o peggio accusando di essere filo-terroristi e antisemiti coloro (ahinoi, quanto pochi…) che hanno tenuto dritta la schiena. Ovvero quei pochi che ostinatamente ricordano a chi ha voglia di guardare alla realtà che questo disastro non è iniziato il 7 ottobre 2023 con le bestialità compiute dai militanti di Hamas sugli inermi civili israeliani, ma ben 56 anni prima.

Il bersaglio polemico sono quegli stessi commentatori e giornalisti, dalla dubbia etica professionale, che vanno ancora dicendo (magari ora un po’ più sommessamente) che il problema ucraino è cominciato con l’aggressione russa del 22 febbraio 2022, e non con le aggressioni delle bande armate neonaziste ai loro concittadini russofoni del Donbass, iniziate quasi dieci anni fa nel 2014. Sì, perché le due guerre, dal punto di vista della copertura mediatica, si somigliano molto. I media occidentali, quasi all’unisono, hanno individuato nell’aggressore attuale o recente, ossia rispettivamente la Russia e Hamas, l’unico vero responsabile, e nell’ aggredito, rispettivamente l’Ucraina e Israele, la vittima innocente.

Le parole di Guterres hanno ristabilito la verità con un minimo di onestà intellettuale e soprattutto di rispetto della storia, che non si può far cominciare ogni volta dalla data che fa più comodo. Se ne facciano una ragione i tanti giornalisti che per quasi due anni hanno preso per sacrosanta fonte informativa i bollettini di guerra dello stato maggiore ucraino e ora, a quasi tre settimane dall’inizio della guerra di Gaza, non si sono degnati di sentire l’altra campana, quella dei rappresentanti di Hamas.

Ma come, si obietterà, sentire la voce di Hamas, quella dei terroristi? Piaccia a no, loro sono una delle due parti in causa e hanno un larghissimo seguito non solo a Gaza, ma anche in Cisgiordania. E la prima domanda da fargli sarebbe: perché l’avete fatto? Perché tanta bestialità omicida? Sì, naturalmente abbiamo fior di sociologi, di politologi, di esperti militari o di psicologia, di tuttologi che hanno tentato di rispondere alla domanda. Ma in un tribunale, dove anche Hamas o quel che ne resta potrebbe un giorno essere chiamato a rispondere, di solito all’omicida si chiede di spiegare appunto il perché, non solo come e quando ha fatto quel che ha fatto. Ecco, Guterres ha voluto nel suo stringato comunicato coraggiosamente porre il problema, buttando giù una frase pesante come una montagna: quei “56 anni di soffocante occupazione” israeliana.

“Israele non si giudica, si comprende”

Ai palestinesi di Gaza e Cisgiordania questa espressione sarà sembrata un eufemismo, un riconoscimento tardivo e insufficiente del loro calvario; ma nell’Occidente abituato a perdonare tutto a Israele, a dimenticarsi che è divenuto nel corso degli anni uno stato dell’apartheid, che ha violato decine di ingiunzioni e risoluzioni di condanna dell’ONU per la politica disumana attuata a Gaza e in Cisgiordania, quelle parole sono sembrate a molti quasi un delitto di lesa maestà. “Israele non si giudica, si comprende”, sembra essere il postulato implicito di tanti giornalisti e intellettuali dell’Occidente, ancora condizionato dall’antico complesso di colpa generato dall’Olocausto si dirà, ma, più realisticamente, condizionato dagli schieramenti geopolitici.

Questo postulato ha inevitabilmente generato una sorta di doppio standard morale e giuridico, come ben ha sintetizzato la regina Rania di Giordania: “Nelle ultime due settimane abbiamo visto il silenzio del mondo” - ha detto la moglie di re Abdallah. “Ed è un silenzio assordante, che per molti nella nostra regione rende complice il mondo occidentale”, ha continuato, denunciando poi “l’apartheid di Israele contro i palestinesi”, da tempo oppressi dallo Stato ebraico. E ancora: “È la prima volta nella storia moderna che vediamo tanta sofferenza umana e il mondo non chiede un cessate il fuoco. Ci viene detto che è sbagliato uccidere una famiglia, un’intera famiglia, sotto la minaccia delle armi, ma va bene bombardare i civili di Gaza? Voglio dire, qui c’è un evidente doppio standard”.

Non so se sia stata una coincidenza, ma il giorno dopo le dichiarazioni di Guterres anche dal mondo musulmano si sono levate voci durissime, persino dai paesi più moderati e filo-occidentali, dai quali magari non ci si sarebbe mai aspettati di sentirle. L’emiro del Qatar, paese in cui c’è la più grande base militare americana del Golfo e dove sta avvenendo la mediazione per liberare gli ostaggi di Gaza, ha denunciato con forza inusitata un “Occidente che ha dato a Israele libera licenza di uccidere” i palestinesi. L’egiziano al-Sisi ha per la prima volta autorizzato oceaniche manifestazioni di piazza pro-palestinesi. Ma è stato soprattutto il discusso presidente turco Erdogan, in un discorso al Parlamento, che si è espresso con particolare chiarezza su due punti importanti, che ci mostrano ancora una volta come il punto di vista del mondo musulmano su Gaza sia lontano anni luce da quello corrente nei nostri media, dal tg1 RAI al tg di La7: “Israele commette crimini contro l’umanità, un massacro che sta raggiungendo le dimensioni di un genocidio”. E ancora: “Noi non abbiamo problemi con lo Stato di Israele, ma non abbiamo mai approvato le atrocità commesse e il suo modo di agire, simile a un’organizzazione più che a uno Stato”; e infine ha aggiunto: “La metà dei morti a Gaza è composta da bambini e questo dimostra una deliberata brutalità nel commettere crimini contro l’umanità. Non c’è un altro Paese che compia azioni così disumane”.

Ecco, la guerra di Gaza, per la prima volta in cinquant’anni, ha posto sotto gli occhi del mondo occidentale - che troppo spesso a voltato la testa dall’altra parte - la questione della “eccezione israeliana”, rimarcata dalle denunce (ricorrenti da decenni) di enti e associazioni internazionali contro i crimini veri o presunti di Israele. Una questione scomoda, rimossa o quasi cancellata dai media occidentali che si sono concentrati piuttosto sulle bestialità compiute da Hamas in un giorno solo: il 7 ottobre 2023.

In questa denuncia di Israele ha avuto storicamente un ruolo importante Amnesty International, di cui riportiamo la recentissima dichiarazione della sua segretaria generale Agnès Callamard: "La nostra ricerca evidenzia prove schiaccianti di crimini di guerra nella campagna di bombardamenti israeliani che devono essere indagate con urgenza. Decenni di impunità e ingiustizia e il livello senza precedenti di morte e distruzione dell’attuale offensiva non faranno altro che portare a ulteriore violenza e instabilità in Israele e nei Territori palestinesi occupati".

A questa fa eco la dichiarazione del ministro degli affari esteri e degli espatriati (palestinesi) Ryad al-Malki che il 25 ottobre ha presentato di fronte alla International Criminal Court dell’Aja, una memoria “sulla portata del crimine e della distruzione causati da Israele, la potenza occupante, senza alcuna responsabilità”, sollecitando la Corte a "completare le indagini penali e consegnare alla giustizia gli autori israeliani di crimini di guerra, sostenendo che la causa dei crimini commessi oggi da Israele e dai suoi funzionari è la mancanza di responsabilità”. L’ultima espressione, “mancanza di responsabilità”, sottolinea un punto chiave: Israele godrebbe da decenni di una franchigia giuridica de facto che avrebbe nel tempo consolidato la sua sensazione di poter operare discriminazioni e repressioni nell’impunità.

Un giurista italiano dell’Università di Nottingham, Luigi Daniele, esperto di diritto internazionale umanitario, ha recentemente sottolineato la natura criminale dell’assedio di Gaza, che sottrae alla popolazione cibo e acqua, e dei bombardamenti a tappeto, in particolare di ospedali. Tutti crimini che sarebbero fatti oggetto attualmente di indagine presso la Corte Penale Internazionale (quella stessa, se non erro, divenuta famosa dopo il mandato d’arresto spiccato contro Vladimir Putin), anche se non pare che notizie di questo genere turbino troppo i politici israeliani e, cosa più inquietante ma non sorprendente, non turbano neppure i commentatori sui media europei.

Erdogan, significativamente, non ha esteso le sue accuse ad Hamas e la spiegazione l’ha data subito dopo in quella che è stata forse la parte più provocatoria del suo discorso e che riguarda la sua definizione dei militanti di Hamas: non sarebbero “terroristi”, bensì “un movimento di liberazione, di patrioti, che combatte una battaglia per proteggere la propria terra e il proprio popolo”.

Riecheggia qui la vecchia questione della terra rubata, della pulizia etnica dei 700.000 palestinesi scacciati dalle loro terre dai coloni israeliani che, nel 1948, fondarono il moderno stato di Israele a spese del suolo altrui. È quello che Golda Meir e Shimon Perez (ex primi ministri israeliani) riconoscevano onestamente essere “il nostro grande peccato originario”. Ecco, qui indubbiamente Erdogan ha toccato un punto dolente, da tempo rimosso dalla mediocre classe dirigente dell’Israele odierno, con alla testa Netanyahu (eternamente impegnato a scansare i processi per corruzione) e Ben Gvir e Smotrich, due personaggi per i quali i palestinesi sarebbero solo “animali umani”, e la Grande Israele dovrebbe estendersi “dal Nilo all’Eufrate” per indiscutibile diritto divino.

Qui forse giova ricordare una voce israeliana d’opposizione ma diversa, inaspettata, tra le tante presenti negli ambienti intellettuali più consapevoli e sui giornali come Haaretz (quanta libertà di pensiero e di dibattito ha Haaretz da insegnare a certa nostra stampa irreggimentata…).

Cos’è Hamas?

Tornando al discorso di Erdogan, esso ha toccato una questione cruciale. Hamas, ci piaccia o meno, dal punto di vista degli arabi e dei musulmani è proprio un movimento di liberazione nazionale, che vuole sgombrare quella che a torto o ragione ritiene la sua terra dall’occupante, Israele, ritenuto l’ultima potenza coloniale ancora in vita. In tutti i nostri tg e giornali Hamas è diventato dopo il 7 ottobre un movimento “terrorista”, comprensibilmente, vista la carneficina che ha compiuto il 7 ottobre. Ma non dobbiamo dimenticare che in tutti i media arabi Hamas è presentato come un movimento patriottico che gode, piaccia o non piaccia, della stragrande maggioranza di consensi sia in Cisgiordania (motivo per cui il debole e screditato Mahmud Abbas, alias Abu Mazen, si rifiuta da anni di indire le elezioni), sia a Gaza, dove la violenza sproporzionata della risposta israeliana se possibile ha stretto ancor più la gente intorno al movimento.

Ecco, a proposito di questi territori dimenticati da tutti fino alla strage del 7 ottobre, vale la pena di ricordare che il trattato di Oslo firmato da Rabin e Arafat e ratificato esattamente 40 anni fa il 13 settembre 1993, prevedeva con l’instaurazione di una Autorità Nazionale Palestinese la nascita dell’embrione del futuro stato palestinese indipendente in Cisgiordania e a Gaza. E prevedeva il graduale ritiro delle forze armate israeliane e l’implicito blocco degli insediamenti di coloni che all’epoca, in Cisgiordania, ammontavamo a 100.000 israeliani dei kibbutz.

Giova ricordare che i due firmatari finirono entrambi ammazzati, Rabin da un estremista nazionalista ebreo e, Arafat, chi dice dal Mossad e chi dice da frange scontente dei suoi. Ma quello che raramente si ricorda è che i successivi governi israeliani hanno attivamente pianificato il sabotaggio degli accordi di Oslo, che peraltro non furono mai ufficialmente rinnegati, neppure dai successivi falliti accordi di pace di Camp David nel 2000.

Cifre alla mano, oggi i coloni israeliani in Cisgiordania sono tra 700.000 e 800.000. Difficile contestare l’accusa palestinese di manifesta malafede dei governi israeliani sull’attuazione degli accordi, responsabilità che non riguarda evidentemente solo il governo attuale di Netanyahu e Ben Gvir. Ben Gvir peraltro, attuale ministro della Difesa e propugnatore della politica di espansione degli insediamenti, da par suo ha approfittato della guerra a Gaza per procedere a una massiccia distribuzione di armi ai civili in Cisgiordania, ossia ai coloni israeliani, che già godono da tempo di una sostanziale impunità quando si devono difendere dalle proteste dei palestinesi locali. Certo, Israele ha diritto a difendersi da Hamas, ma non può concedere libera licenza di uccidere ai coloni a danno di popolazioni palestinesi continuamente sottoposte in Cisgiordania a vessazioni amministrative, a espropri o demolizioni di case, a sradicamenti di uliveti e via dicendo.

Qualche nostrano giornalista ingenuo o sprovveduto ha detto che Hamas, in quanto terrorista, è squalificato a condurre i futuri colloqui di pace con Israele. Ma di nuovo, piaccia o no, i palestinesi si sentono rappresentati solo da Hamas. Punto. Dire come si fa che Hamas non rappresenta i palestinesi è una semplificazione mistificatoria: certamente non rappresenta il 100% dei palestinesi, ma a Gaza è stato liberamente eletto, e in Cisgiordania è l’anima della resistenza palestinese all’occupazione. Negare questo sarebbe come dire che Natanyahu non rappresenta gli israeliani. Per una larga parte degli israeliani è sicuramente un uomo corrotto e c’è pure chi gli addossa interamente la responsabilità dell’incancrenimento dei rapporti con i palestinesi, sia in Israele sia all’estero (si pensi, per restare in Italia, a intellettuali ebrei come Moni Ovadia e Gad Lerner); ma nondimeno lui e il suo governo rappresentano pienamente tutti gli israeliani.

Chi saranno gli interlocutori?

Tornando ad Hamas, val la pena ricordare che la sua presenza è preponderante anche nella diaspora palestinese, ossia in quel mondo di profughi e fuorusciti che è numericamente assai più numeroso dei palestinesi rimasti nella “gabbia per topi” o “prigione a cielo aperto” di Gaza e nei territori della Cisgiordania (formalmente amministrati dalla Autorità Nazionale Palestinese di Abu Mazen, in realtà alla mercé dei coloni israeliani armati e di Tsahal, l’esercito israeliano).

Gira e rigira, saranno gli uomini di Hamas e gli uomini di Netanyahu e Ben Gvir che dovranno alla fine parlarsi, se vogliono arrivare non diciamo alla pace, ma solo a un qualche ragionevole compromesso: c’è da mettersi le mani sui capelli… Israeliani e palestinesi hanno in testa, ora ancor più di prima, solo un odio reciproco e una sete di vendetta apparentemente inestinguibili, alimentati dalle ferite aperte da quest’ultima guerra che non si rimargineranno finché non sia passata almeno questa generazione.

Israele alla fine - secondo la pressante “esortazione” di un Biden ormai spazientito, che non vede l’ora di chiudere il vaso di Pandora di Gaza perché tra Ucraina, Taiwan e prossime elezioni, ha altro cui pensare - forse sarà infine costretto dagli USA a rinunciare ai suoi progetti di deportazione degli abitanti di Gaza nel Sinai o altrove e a creare, sia pure tardivamente, anche unilateralmente se necessario, uno stato palestinese indipendente.

Basterà questo a raffreddare il fuoco della vendetta che alimenterà per decenni i palestinesi dopo questa guerra? E davvero si può sperare che Israele avrà per quella soluzione – in realtà la vecchia soluzione dei Due Stati – un nuovo Rabin, insomma l’uomo giusto al posto giusto? O, come temiamo, la situazione in Medio Oriente degenererà presto in un conflitto generale di tutti contro tutti, e la “terza guerra mondiale a pezzi” di cui parla Papa Bergoglio da anni si materializzerà nel Medio Oriente in una apocalisse senza ritorno?

Al momento in cui scriviamo, il governo israeliano è posto di fronte alla difficile scelta se fermarsi, o procedere a spianare Gaza a colpi di bombe e deportare (dove?) i suoi abitanti. La prima scelta forse non è quella desiderata da Netanyahu e Ben Gvir, ma dopo 7.000 morti palestinesi di cui 3.000 bambini e adolescenti, la sete di vendetta potrebbe dirsi più che soddisfatta. Il rapporto tra morti palestinesi (7.000) e morti israeliani (1.500) è quasi di 5 a 1; quello tra bambini palestinesi uccisi (3.000) e bambini israeliani (50) è di 60 a 1. Può bastare?

Credo che Israele farebbe bene a farselo bastare. L’alternativa è quella di rischiare d’essere ricordati come coloro che hanno fatto fare ai palestinesi di Gaza la fine degli ebrei del Ghetto di Varsavia.