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Cosa ci aspetta nel 2024?

Le prospettive inquietanti aperte dalle guerre in corso.

Questo fine anno lascia gli osservatori del panorama internazionale con una certezza e una incertezza. La certezza riguarda il fatto che il mondo nel 2023 è cambiato molto e nulla tornerà come prima. L’incertezza riguarda gli scenari inquietanti che questo cambiamento ha aperto, in buona parte ancora avvolti nella nebbia.

Cominciamo dal primo punto. A livello geopolitico l’ampliamento dei BRICS avvenuto con l’ingresso di tre potenze petrolifere (Arabia Saudita, Iran e Emirati), due paesi africani (Egitto e Etiopia) e l’Argentina, ha spostato il baricentro politico-economico del mondo dal fatiscente G7 a una organizzazione in forte sviluppo e che controlla intorno al 40% dell’economia mondiale e il 50% o più delle risorse energetiche e alimentari. Un cataclisma, i cui effetti si vedranno nei prossimi anni anche a livello finanziario e monetario (fine della supremazia del dollaro e del sistema bancario collegato), ma non insisterò oltre sul tema perché su questa rubrica me ne sono occupato di recente. Più gravi sono le conseguenze a livello geopolitico: l’emergere di un mondo multipolare non è negato più da nessuno, così come la percezione di essere entrati in una fase di “fine impero a stelle e strisce” è ormai palpabile in tutti i media, persino in quelli più ideologicamente organici al sistema di potere unipolare che ha retto il mondo occidentale dalla fine della II guerra mondiale, e anche il resto del mondo dalla caduta dell’URSS di Gorbaciov. Ad accelerare questo declino hanno contribuito sicuramente errori catastrofici nella gestione della politica estera americana che si sono materializzati nei due disastri della guerra ucraina e in quello più recente della guerra di Gaza. Lo “stato profondo” americano decidendo (correttamente) che l’avversario sistemico degli USA è la Cina, ha preso però la decisione (errata) che per neutralizzarlo occorresse prima indebolire la Russia, in sostanza facendole una guerra per procura attraverso l’Ucraina. È un po’ la vecchia politica del “divide et impera”, ma la cosa non è andata per il verso giusto. Gli USA, attraverso tre assi (le sanzioni, la distruzione dell’oleodotto North Stream, il sequestro dei fondi russi ammontanti a 300 miliardi di dollari nelle banche europee e americane) hanno strappato la Russia al suo tenero abbraccio con la Germania e l’Europa Occidentale, cui forniva carburanti e alimentari a prezzi bassi. Ma, sorpresa, Putin ha rapidamente costruito e attuato le sue contromosse, tirando fuori i suoi assi: ha velocemente riorientato le sue esportazioni verso l’Asia e i BRICS; ha ridato impulso all’industria domestica che a due anni dall’inizio della guerra produce ora migliaia di beni prima importati e punta all’autosufficienza; ha stretto ancor più saldamente i legami politici e militari con la Cina, e trovato preziosi aiuti in due potenze militari emergenti, l’Iran (con i droni) e la Corea del Nord (con proiettili e munizioni d’artiglieria).

Il risultato è riassumibile in tre punti. 1. Una Russia spinta tra le braccia della Cina, che beneficia ora di quelle risorse energetiche e alimentari a prezzi stracciati di cui prima godeva l’Europa; il che costituisce l’opposto di quel che gli Stati Uniti s’immaginavano, convinti com’erano che la Russia sarebbe crollata economicamente dopo tre mesi di guerra e sarebbe venuta a Canossa. 2. Un'Europa ridotta male, che compra quegli stessi beni a prezzi spesso di gran lunga superiori (il gas liquefatto dagli USA e il petrolio raffinato dall’India che, ulteriore beffa, è lo stesso petrolio russo che l’India riceve al grezzo per raffinarlo e riesportarlo ai gonzi europei); una Europa senza prospettive, che non conta in nessuno scacchiere mondiale, e che sta affrontando la peggiore crisi economica dal dopoguerra, costretta ad arroccarsi con il Re d’oltreoceano, di cui segue le politiche senza discutere in uno stato di umiliante vassallaggio. 3. L’emergenza della potenza cinese, che, apparendo tranquilla e rassicurante, ha guadagnato il rispetto dell’ex-Terzo mondo, sia dei paesi ricchi come quelli arabi del Golfo, sia di quelli poveri del Sudamerica e dell’Africa.

Una storia alternativa

Facciamo ora un po’ di fanta-politica o di contro-storia: che sarebbe accaduto se gli USA avessero ragionato diversamente, ovvero avessero mirato ad attrarre a sé la Russia, che da Eltsin fino al primo Putin (e forse anche fino al 2014) non chiedeva di meglio, anche per risolvere il più rapidamente possibile i propri problemi di sviluppo economico interno? Oggi il blocco BRICS forse neppure esisterebbe, il blocco Occidente-Russia, contando sulla potenza industriale euro-americana e le risorse infinite della Russia, sarebbe l’indiscusso leader globale, senza possibilità di rivali di pari rango. Infine, ciliegina su questa politica fallimentare è il rovesciamento totale della prospettiva di isolare la Russia: Putin oggi ha dalla sua parte non solo l’alleanza dei paesi BRICS, ma anche la neutralità del resto del mondo che si è rifiutato di applicare le sanzioni (a differenza dei paesi europei, Giappone, Canada e Australia). La conta nelle sessioni dell’Assemblea Generale dell’ONU mostra che intorno agli USA c’è un nucleo più o meno stabile di una quarantina di paesi (il nocciolo duro), mentre il resto ossia oltre 150 paesi (BRICS compresi) su questioni cruciali come le sanzioni contro la Russia o il sostegno a Israele ha fatto marameo agli USA, ivi comprese le potenze petrolifere del Golfo con l’Arabia Saudita e gli Emirati in testa. Insomma l’Occidente, volendo isolare la Russia, ha finito per isolarsi dal resto del mondo. Il Re è nudo e questo 2023 lo ha ormai certificato.

Ma veniamo al secondo punto: l’incertezza delle prospettive. Cartina al tornasole di questa incertezza è la situazione della guerra a Gaza. Qualche commentatore ha osservato che Israele si è cacciato da solo in una trappola e qualcun altro ha aggiunto che nella trappola in realtà è caduto anche Biden. Vediamo in che senso. Non vi erano dubbi all’inizio che, data la sproporzione delle forze, Israele in poco tempo avrebbe avuto partita vinta sul campo di battaglia non solo a Gaza ma anche, se del caso, in Cisgiordania. Adesso in Israele si parla di anni… A complicare le cose sono intervenuti diversi fattori. La resistenza dei militanti di Hamas si è dimostrata al di là di ogni aspettativa. Squarciando il velo di fake news sparse sui media, un giornalista israeliano di Yedioth Ahronoth (giornale conservatore e filogovernativo) ha fatto un po’ di conti a metà dicembre, arrivando alla conclusione che l’IDF (l’esercito israeliano) dopo il 7 ottobre ha mandato negli ospedali del paese almeno 2000 militari resi inabili, ossia feriti gravi o con amputazioni, e ha stimato che il totale dei feriti militari compresi quelli di minore entità fosse di almeno 5000. Il giornalista in questione ha perso il posto… Anche una inchiesta condotta dal giornale d’opposizione Haaretz è giunta a conclusioni non dissimili, superando la censura che l’IDF ha imposti sui comunicati degli ospedali israeliani. Ora, in una guerra, statisticamente i feriti sono di solito circa il triplo dei morti, il che fa pensare che l’IDF abbia avuto non meno di 1500-1700 soldati morti (non i circa 150 ufficialmente ammessi), senza contare i 2000 resi inabili, insomma una carneficina. Il secondo elemento di complicazione ha riguardato l’allargamento del conflitto ad altri due attori della zona, Hezbollah del Libano e gli Houthi dello Yemen, due movimenti sciiti. Il che, se si pensa alla tiepidezza della solidarietà a Hamas (movimento sunnita) degli stati arabi sunniti, avrà certamente delle conseguenze sulla opinione pubblica di questi paesi, decisamente più solidale con la causa dei Palestinesi di Gaza di quanto non lo siano mai stati i vertici politici. Hezbollah si è sinora mantenuto entro limiti prudenti, anche se ha via via aumentato le operazioni militari con lancio di missili sul nord di Israele, costringendo l’IDF a distaccare al nord una buona parte delle forze, distraendole da altri fronti. Ma la vera sorpresa sono stati gli Houthi dello Yemen che, dopo avere umiliato l’Arabia Saudita in una guerra durata sette anni, hanno di fatto decretato il blocco selettivo della circolazione delle navi sul Mar Rosso, dirette a Suez o Aqaba, l’unico porto israeliano nell’area. Con conseguenze sistemiche piuttosto gravi: i prezzi delle assicurazioni per le navi sono saliti alle stelle, le grandi compagnie di navi porta-container hanno abbandonato il Mar Rosso per la più tranquilla ma lunghissima e costosa rotta che circumnaviga l’Africa, le attività del porto israeliano di Aqaba crollate dell’ 80%. Insomma il Davide dello Yemen, tra i 10 paesi più poveri e disastrati della terra, ha creato più danni al Golia israeliano che lo stesso Hamas! Non contenti, gli Houthi hanno sfidato anche gli USA in sostanza dicendo: siamo qui, vi aspettiamo. Biden ha frettolosamente allestito una coalizione navale di “volonterosi” con vari paesi europei, che manderanno navi militari a pattugliare il Mar Rosso. E qui il rischio è grande. Gli Houthi con l’aiuto tecnologico dell’Iran hanno costruito un arsenale di missili di tutto rispetto, in grado probabilmente di creare seri problemi a navi che devono manovrare nello Stretto di Bab el Mandeb, il cortile di casa degli yemeniti che hanno già dimostrato in quest’ultimo mese di poter mettere in crisi la navigazione internazionale. La domanda che ci si pone è: se i missili degli Houthi affondano una nave militare americana o italiana, che succede? Qualche analista ha fatto notare che Biden si è cacciato in una trappola, perché in quel caso non potrebbe evitare di rispondere agli Houthi e forse allo stesso Iran, accusato di essere il regista occulto delle manovre yemenite sul Mar Rosso. Una guerra con l’Iran a meno di un anno delle elezioni Biden cercherà di evitarla, anche facendo i salti mortali, come del resto già accade in Irak dove le basi americane vengono sempre più spesso attaccate da milizie filo-iraniane che subiscono poi rappresaglie limitate. Ma Netanyahu, che predica la necessità della guerra all’Iran da anni, non potrebbe forse cogliere l’occasione al volo e scatenare la temibile aviazione dell’IDF sull’Iran, rischiando di scatenare l’apocalisse? E gli americani non rischierebbero a quel punto di essere trascinati in una guerra che incendierebbe tutto il Medio Oriente? Ci sono indizi che fanno pensare che Israele, o meglio il suo discusso primo ministro Netanyahu, pensi davvero a un allargamento del conflitto: di recente un bombardamento israeliano sulla Siria ha ucciso un importante generale iraniano, consigliere del governo di Damasco, e gli iraniani hanno promesso vendetta aggiungendo un avvertimento: se gli israeliani attaccheranno l’Iran, Tel Aviv “sarà rasa al suolo”. Gli USA insomma hanno molto da temere dal loro indisciplinato ma potente alleato mediorientale.

Soprattutto in questa guerra gli Stati Uniti, esercitando più volte all’ONU il diritto di veto sulle risoluzioni che imponevano il cessate il fuoco a Israele, hanno dato un segnale inequivocabile del loro allineamento completo alla politica israeliana del “fare piazza pulita di Gaza”, e, nonostante i loro deboli inviti a Israele a moderare la violenza, i fatti parlano chiaro: Gaza è stata rasa al suolo, i civili massacrati; lo hanno fatto certamente i piloti israeliani ma con aerei e bombe made in USA che vengono massicciamente rifornite dagli americani con voli militari (a scapito dell’alleato ucraino). L’America, preteso baluardo dei diritti e della democrazia, a Gaza ha perso la faccia. I suoi doppi standard sulle oltre 20.000 vittime palestinesi innocenti, restano una macchia indelebile agli occhi dell’opinione pubblica mondiale e hanno riattizzato un anti-americanismo che non si vedeva dalla guerra del Vietnam.

Tirando le somme, l’incertezza sul futuro in Medio Oriente è ancora ampia, il rischio di una mossa azzardata che scateni rappresaglie a catena e una finale resa dei conti tra Israele e i suoi nemici è altissimo. E purtroppo, i personaggi da cui dipendono le sorti del Medio Oriente (e forse del mondo intero) non sono esattamente dei tipi raccomandabili.