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QT n. 3, 12 febbraio 2005 Servizi

“Zero Waste” non è un’utopia

Come smaltire i rifiuti? Riduzione, riuso, riciclo ed educazione. In diversi Paesi già si fa.

I rifiuti sono un problema drammaticamente attuale, anche in Trentino. Produciamo più di 200.00 tonnellate di rifiuti all’anno e la raccolta differenziata è sotto i parametri di legge. Esistono due modi opposti di affrontare il tema: il primo, più diffuso, è affermare che i rifiuti sono una conseguenza inevitabile del sistema produttivo e dunque, non essendo possibile intervenire a livello locale per ridurli, bisogna decidere come smaltirli. L’altro modo, che si sta lentamente diffondendo, è Zero Waste.

Negli anni ’60/’70 l’espansione economica aveva portato ad una enorme incremento della quantità di rifiuti (con conseguente consumo di energia e inquinamento); la prima soluzione al problema fu l’allestimento di sempre più grandi e problematiche discariche, rivelatesi inquinanti e indecorose. Alle polemiche l’ingegneria rispose con l’invenzione degli inceneritori, che parvero per una decina d’anni (almeno fino all’arrivo dei primi incidenti e ai dati sulle patologie) l’innovazione risolutiva: da una ingombrante massa di "roba" si riduce tutto ad una relativamente piccola massa di ceneri tossiche. La soluzione sembrava anche relativamente economica e gestibile dal punto di vista della sicurezza, ma dopo qualche anno cominciarono a sorgere comitati contrari e proteste.

Gli inceneritori presentano infatti alcuni seri elementi di criticità (vedi scheda) per la salute umana ed anche dal punto di vista della logica che sottendono. A questo proposito va ricordato che la Germania, paese storicamente "inceneritorista", che aveva pianificato nel 1990 120 forni, poco tempo dopo invertì la rotta; dal ’90 al 2002 ne sono stati avviati appena due dozzine e diversi Länder oggi rifiutano nuove discariche e inceneritori e la nazione (come la vicina Austria) ha adottato una politica di riduzione, riuso, riciclo ed educazione.

Nel 2002 in Irlanda è stata inserita una tassazione sulle buste in plastica distribuite nel commercio; risultato: -97% di buste ed entrate statali per 10 milioni di euro reinvestiti in azioni di gestione dei rifiuti.

Insomma, a partire dagli anni ’90 la prospettiva cominciò a cambiare (basti qui ricordare, nel 1995, il documento del Club di Roma sui limiti dello sviluppo), dando progressivamente corpo alla strategia di Zero Waste, oggi attuata dal 50% delle città in Nuova Zelanda, dall’Australia, dal Canada, dalla California, dallo Stato dell’Oregon e da molte aziende multinazionali (Toyota, Bell Canada, Xerox, Hewlett Packard, e altre). Per esempio, la Xerox Usa stima che le propria politica Zero Waste, grazie a riduzione, riuso e riciclo, abbia prodotto dal 1990 al 1999 un risparmio pari a 47 milioni di dollari. Zero Waste alle Olimpiadi di Atlanta ha permesso di realizzare l’85% di raccolta differenziata; lo stabilimento Epson di Portland in Oregon nel 2000 ha ridotto del 90% la quantità di rifiuti; la catena canadese Beer Store (12 milioni di clienti all’anno) ha un recupero del 98% delle bottiglie piazzate sul mercato, con un risparmio di circa 160 milioni di dollari e ricicla il 97% degli imballaggi in plastica, e così via.

Dollari, insomma, non utopia !

I risultati sono importanti: riduzione forte dei rifiuti e cambiamento radicale della logica di produzione e dei principi economici, con una spinta innovativa che rende competitivi.

Ma non abbiamo ancora spiegato, nei dettagli, cos’è Zero Waste. Zero Waste è un metodo di lavoro il cui scopo è ridurre i rifiuti, l’impiego di energia e di materia, lo spreco e l’inefficienza, partendo dalla considerazione che l’esistenza dei rifiuti è sintomo della inefficienza del sistema economico e che è possibile porvi rimedio con la tecnica e l’organizzazione.

Si studia la comunità dove agire, analizzando il flusso della materia e si trovano le soluzioni tecniche e organizzative insieme ai produttori e ai cittadini; poi, attuando le soluzioni trovate, si ottiene la riduzione dei rifiuti nella produzione, distribuzione e nel consumo sia per quantità sia per tossicità, per quanto possibile a livello locale. In che modo?

Si riutilizzano le cose dismesse, creando aziende che le commercializzano dopo averle "aggiustate", creando Parchi del riuso e della rivendita e un mercato vero e proprio, con un adeguato supporto finanziario e legislativo.

Tutto ciò, naturalmente, va supportato con azioni educative e formazione sul riuso e compostaggio. Il successivo passaggio consiste nel riciclare e inserire correttamente sul mercato i prodotti del riciclo, supportare la ricerca tecnica e logistica, creare conoscenza attraverso studi specifici, con corsi universitari, Accademie Zero Waste, ecc., diffondendo insomma un clima creativo, una cultura tra i cittadini e nell’economia.

Così i rifiuti diventano risorse economiche e non costi.

Le comunità locali possono agire come gruppi di pressione per avere leggi adatte allo scopo e per costruire sinergie territoriali e di comparto economico; inoltre è necessario collaborare con i produttori per premere affinché i costi della produzione di scarti non ricadano sulle comunità.

Si tratta, certo, di un metodo che richiede una forte leadership politica e una forte fiducia nel futuro e nella comunità stessa; le esperienze che esistono al mondo dimostrano tuttavia che perseguire Zero Waste è possibile e porta risultati concreti. Facciamo alcuni esempi, ricordando che in ogni realtà Zero Waste si attua in modo specifico.

In Nuova Zelanda vi sono città dove ci si è limitati a rafforzare la raccolta differenziata, raggiungendo rapidamente il 70%, il che ha permesso di continuare ad usare piccole discariche; altrove, nella convinzione di non dovere in futuro costruire nuovi impianti, oltre alla raccolta differenziata spinta si sono aperti negozi del riuso e contemporaneamente si è risistemata la discarica estraendo il materiale riciclabile.

In altre località la strategia si è fatta più complessa, attivando veri e propri parchi del riuso e riconversione della produzione.

In tutti i casi la strategia comporta il coinvolgimento attivo della popolazione e degli operatori economici e una decisa leadership dell’amministrazione, con stanziamenti a bilancio per avviare le varie fasi.

I risultati più significativi ottenuti finora con Zero Waste sono che la raccolta differenziata è decollata, e che spesso da questa riorganizzazione dello smaltimento di rifiuti sono sorti nuovi posti di lavoro.

Lo dimostra, fra l’altro, il caso della Nuova Zelanda, che fin dal 2002 ha adottato un Piano nazionale. Il Paese ha in tal modo aumentato la percentuale di raccolta differenziata, ridotto la quantità di rifiuti, innestato un processo economico innovativo che ha bisogno di materia prima e non di rifiuti, avviato un coinvolgimento dei cittadini che rende nel complesso la società più attenta e competitiva. Nota importante: la Nuova Zelanda sceglie, alla fine di questo processo, le discariche, perché con Zero Waste non c’è più bisogno di inceneritori.

L'economista Robin Murray.

Un altro esempio ci viene dall’Oregon, dove è nata la Zero Waste Alliance, associazione pubblico/privata nel cui board siede anche il Governatore dello Stato, oltre ad ecologisti, imprese e ricercatori; essa ha lo scopo di studiare casi di produzione sostenibile, diffonderli attraverso l’Accademia Zero Waste (che esiste anche in Nuova Zelanda), supportare azioni di educazione, formazione dei manager e dei tecnici, marketing.

Citiamo il Presidente della DuPont, Edgar Woolard: "Il futuro è zero: zero difetti, zero incidenti, zero spreco".

Zero Waste è spesso definita un’utopia; ma il suo più celebre promotore, Robin Murray, è un famoso economista della London School of Economics.