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QT n. 20, 25 novembre 2006 Cover story

Il marcio nel Comune di Trento / 2

Ancora sulle costruzioni illegittime in collina: le sconcertanti minimizzazioni del sindaco Pacher, le richieste di chiarezza nella maggioranza, la realtà sull’Allegato 5. E ancora: i trucchi (dei progettisti) e le inadempienze (degli Uffici) per costruire 5 metri sopra le altezze massime. Ma per l’Amministrazione i suoi dirigenti sono sopra ogni sospetto: buonismo od omertà?

La nostra denuncia (Il marcio nel Comune di Trento, su QT n° 18) prende le mosse da due sentenze del Tar su altrettanti casi di abnormi concessioni edilizie rilasciate persostituzioni di villette mono-bifamiliari, con condomìni di 10-12 appartamenti in Via alla Val. Queste concessioni edilizie risultano illegittime per tre motivi: 1) non tengono conto dell’Allegato 5 del Prg, che limita nella zona l’altezza a 10 metri, e autorizzano invece altezze di 12 metri; 2) non si avvedono di un trucchetto nel calcolo dell’altezza, con il quale l’edificio è stato surretiziamente innalzato di un altro paio di metri; 3) non tengono conto delle normative sulla idoneità della viabilità, insufficiente a supportare ulteriori carichi antropici/automobilistici a garanzia del transito in sicurezza delle automobili, dei pedoni e dei mezzi di soccorso.

"Mi sembra una cosa esagerata: si tratta solo di due metri d’altezza, in sette casi”. Queste le parole del sindaco Alberto Pacher a commento della nostra denuncia sul “marcio in Comune” (che, per comodità del lettore riassumiamo nella tabella) e del successivo esposto alla Procura della Repubblica da parte delle associazioni ambientaliste.

Un tentativo di minimizzazione grottesco e al contempo grave. Grottesco perché fuori dalla realtà, che è quella sotto gli occhi di tutti, di una collina violentata dalla crescita di mostri edilizi, che deturpano il paesaggio e compromettono la vivibilità. Non sono state un caso le pronte reazioni delle associazioni ambientaliste, né gli apprezzamenti e le testimonianze di solidarietà che a QT continuano a pervenire, o i propositi di altri cittadini di investire Tar e magistratura per i condomìni che, in collina, gli sono cresciuti nel prato a fianco.

Si poteva pensare che al primo cittadino (evidentemente distratto quando il Tar aveva autorevolmente indicato il problema) potesse tornare utile che la stampa avesse fatto emergere i meccanismi perversi e anche alcune responsabilità individuali che hanno permesso lo scempio; per impostare una correzione di rotta. Che QT peraltro aveva delineato: sospensione dei dirigenti comunali pesantemente implicati; incarico – a terzi! – per un’indagine interna, come momento di verifica dell’estensione e delle implicazioni del problema; e infine – avendone il coraggio politico – rimozione dell’assessore competente, Alessandro Andreatta, che in questi mesi si era dato da fare per coprire, invece di acclarare, lo scandalo nascente.

Niente di tutto questo. Per Pacher “è una cosa esagerata, si tratta solo di due metri”.

Ma non è vero. Il punto è che la città si rende conto di essere urbanisticamente sgovernata, che tutti i nuovi quartieri nascono invivibili. E così le circoscrizioni votano contro la variante al Prg. E anche il Consiglio comunale - già acquietato con una gestione clientelare dell’ultima variante, che aveva concesso gli opportuni favori a tanti amici degli amici, compresi quelli dell’opposizione – è infine uscito dal suo torpore. E il sindaco, nervoso e tesissimo, ora si trova di fronte da una parte a un’opposizione che all’improvviso sente l’odore del sangue, o meglio, finalmente trova un suo ruolo; dall’altra si trova a fare i conti con una parte della stessa sua maggioranza, che non ci sta ad avallare un andazzo rovinoso per la città, e pretende sacrosante chiarezze.

Vediamo quindi di portare anche noi qualche ulteriore elemento. A iniziare dall’ormai famoso Allegato 5, la parte di Prg messa in un cassetto dagli Uffici comunali, che hanno deciso di non applicarla e dare così via libera ai condomìni in collina.

L’assessore all’Urbanistica Alessandro Andreatta

Su questo punto si è focalizzato il dibattito. Sul duplice aspetto, delle responsabilità per il passato e dei comportamenti per il futuro. E in entrambi gli aspetti il giudizio non può che essere negativo.

Cominciamo dalle responsabilità. Andrebbero meglio precisate quelle dei tecnici, e indagate quelle dei politici. I dirigenti, gli arch. Codolo e Penasa, non hanno applicato l’Allegato 5. Perché? E come mai hanno insistito, per due anni, nel difendere le concessioni edilizie illegittime, facendo schierare il comune contro i cittadini che ricorrevano al Tar, per venirne due volte sonoramente sconfitti? E chi a livello politico ha ispirato questi comportamenti?

A queste domande si sono date risposte frettolose e sostanzialmente fasulle, prese da tutti per buone. A parte l’assessore Andreatta che si è ostinato a difendere l’indifendibile, fino a giudicare irrilevanti le sentenze del Tar (“Ce ne sono centinaia di sentenze...”), la posizione dell’amministrazione è quella dell’avv. Marco Dallafior, autorevole presidente della Commissione Urbanistica: “Le norme dell’Allegato 5 sono prescrittive. Gli Uffici hanno ritenuto che fossero dei semplici suggerimenti. A mio parere a torto. Ma si tratta solo di un’interpretazione sbagliata”.

Insomma, il Tar ha ragione, ma non c’è nessuno scandalo. Gli Uffici tecnici hanno commesso un errore di interpretazione delle norme. Errare è umano: non gli si vorrà per caso gettare la croce addosso? Poi, è vero, questo “errore di interpretazione” ha provocato la cementificazione della collina: ma che volete farci, così è la vita...

Le cose non stanno così: le Norme Tecniche di Attuazione (NTA) del Prg sono chiarissime, non lasciano spazio a dubbi. Infatti nella relazione che illustra le NTA il carattere prescrittivo dei criteri di costruzione dell’Allegato 5 sono continuamente ribaditi (alle pagine 11, 13, 29, 48). Si veda, ad esempio, a pag. 48: “Il paesaggio urbanizzato è poi stato oggetto di un esame approfondito che ha condotto alla predisposizione delle schede allegate alle norme tecniche di attuazione. Dette schede... contengono prescrizioni riguardanti le principali caratteristiche cui gli interventi edilizi dovranno conformarsi.

Ora, esistono nella lingua italiana termini più perentori del sostantivo “prescrizioni” e del verbo “dovere”? Come si possono interpretare tali frasi come “suggerimenti... raccomandazioni... generici criteri”? Ma allora, perché si assolve in fretta e furia un pubblico ufficiale che sbatte nel cestino norme così inequivoche? Invece l’amministrazione – e dietro di essa il Consiglio, timido o disinformato – dichiara l’assoluta correttezza dei suoi dirigenti.

Qui bisogna intendersi: Amministrazione e Consiglio hanno il dovere di controllare l’operato della macchina burocratica. Di fronte a dei dirigenti che disattendono delle norme in maniera così plateale, e così facendo autorizzano lo scempio di una parte della città, chi ha il compito di controllare non può fare finta di niente. In questi casi il buonismo è una colpa, che rischia, se si volesse insistere, di avere un nome preciso: omertà.

Veniamo ora ai proponimenti per il futuro. In essi, come ovvio, i nostri rappresentanti fanno subito bella figura. “Rivedremo l’allegato 5” dicono in tanti, a cominciare da Andreatta, e un brivido ci corre per la schiena: adesso che non possono più ignorarlo, l’Allegato 5 lo depotenziano - pensiamo malevoli.

Il presidente della Commissione Urbanistica Marco Dallafior

Sbagliamo? Sembrerebbe di sì: sia in Consiglio comunale che ai giornali, compreso il nostro, autorevoli esponenti della maggioranza tracciano la linea: “Le edificabilità già concesse dovranno essere ricondotte a quanto previsto dall’Allegato 5; e per le nuove concessioni si agirà riducendo in collina le cubature”. Il che sarebbe ottimo, vorrebbe dire aver imparato la lezione: infatti l’Allegato 5 limita le altezze, ma concede generose cubature; riducendo anche queste, si ridurrebbero i problemi.

Solo che la realtà che avanza è ben altra: nell’attuale variante al Prg (quella di cui si stanno discutendo adesso le osservazioni) in prima adozione sono stati fissati nuovi criteri, con un aumento di mezzo metro nelle altezze (per le zone B3a si passa da 10 metri a 10.5, per le B3 da 12 a 12.5) e un nuovo calcolo delle cubature.

Anche a prescindere dal discorso delle cubature, è evidente che la direzione di marcia è opposta a quella che si dice di voler intraprendere. “Non mi sembra – ci dice Dallafior – Questo aumento è per permettere solai più spessi, meglio coibentati, che favoriscono il risparmio energetico. E non possiamo penalizzare chi fa questi interventi”.

Non siamo d’accordo: a parte il fatto che l’aumento d’altezza è generalizzato, sia per chi coibenta meglio e per chi no, non capiamo perché un miglior risparmio energetico debba tradursi in un aumento delle altezze e quindi dei volumi. Questo indizio sembra coerente con la cultura che è sottesa alla vicenda: il territorio, la vivibilità non contano, quello che conta è assecondare comunque lo sviluppo edilizio, non importa se tumultuoso e disordinato.

Torniamo alle cubature. Col nuovo metodo di calcolo, non si considererà più il volume lordo (superficie x altezza) ma quello netto, scorporando cioè gli spessori dei muri, i giroscale, gli ingressi, ecc. Come a suo tempo ebbero a dire gli ordini professionali, tutto questo comporta nuove complicazioni. Che sarebbero routine (una ventina di moltiplicazioni e sottrazioni in più non dovrebbero spaventare), ma solo se gli Uffici tecnici funzionassero come dovrebbero. Nella situazione attuale, in cui – almeno a certi progettisti – sono concesse licenze inaudite nella presentazione degli elaborati e nei relativi calcoli, le complicazioni nel calcolo delle volumetrie possono facilmente tradursi in un ampliamento dell’area di discrezionalità degli Uffici. I quali, come vedremo, all’occorrenza sono disposti a chiudere un occhio o due, e anche fare di peggio.

E qui arriviamo al secondo punto dolente evidenziato dal Tar: i trucchi nei computi, che il Tribunale ha rilevato in due casi su due che gli sono stati sottoposti. Cosa che fa supporre un metodo e che quindi richiamerebbe l’inderogabile necessità di una verifica quanto mai rigorosa dell’operato degli Uffici. Ma invece l’Amministrazione su questo punto finora ha – inesplicabilmente – taciuto, limitandosi a generici attestati di fiducia verso i propri dirigenti. Ma – ripetiamolo - la fiducia cieca del controllore nel controllato, anche quando ci sono vistosi segnali contrari, è una colpa.

Qui dobbiamo aprire una parentesi. Nella nostra denuncia dei dirigenti degli Uffici tecnici, non c’è alcuna intenzione di coinvolgere in un indiscriminato giudizio negativo l’insieme della macchina burocratica comunale. Che funziona, e funziona bene, come abbiamo constatato anche nella ricerca dei documenti per supportare questi articoli. La documentazione disponibile su Internet è completa, aggiornata e facilmente consultabile; semplicemente entusiasmante è la cartografia, che in maniera semplice e rapida fornisce di ogni lembo del territorio ogni informazione catastale e urbanistica. Un esempio di trasparente servizio al tecnico come al cittadino.

Ma proprio questo dato di fondo esige il massimo rigore nell’accertare le singole responsabilità, quando ci siano sospetti di comportamenti inadeguati. Proprio per tutelare il lavoro di chi invece si comporta correttamente.

[/a]Dopo questa doverosa premessa, arriviamo al dunque, partendo dalla sciagurata affermazione del sindaco, “Sono solo due metri! Neanche un piano”. Quindi, per Pacher, un’illegalità irrilevante. Passando sopra l’evidente bestialità di un’affermazione del genere, al sindaco vogliamo dare ragione: per fare un affarone, per comperare una villetta nuova, demolirla e guadagnarci sopra, due metri illegali in genere non bastano. E difatti gli Uffici avallano un altro trucchetto, che porta i 2 metri a 4/5, e trasformano la villetta nel mostro.

Sezione dal progetto per l’edificio di Via della Val: il progettista misura l’altezza secondo la linea rossa continua, partendo cioè dal primo piano: h=11,98 m. Si abbuona così praticamente tre metri (2,95). L’altezza corretta è invece quella indicata dalla linea tratteggiata: H= 14,93 m. Secondo il Regolamento Edilizio e secondo il Tar; ma non secondo gli Uffici comunali, che avevano presa per buona l’autoriduzione di tre metri del progettista.

Già nel numero scorso avevamo spiegato il trucco, che consiste nell’incorporare nella parete esterna un muretto in cui si inseriscono alcune badilate del vecchio terreno, e poi calcolare l’altezza dell’edificio partendo non dal piano terra, ma dalla sommità del muretto. In questa pagina riportiamo il disegno originale di uno dei progetti di via alla Val: come si vede, il progettista calcola l’altezza a partire non da terra, ma dal primo piano, con la scusa del muretto (di 2,95 metri) inserito nell’edificio. Il risultato è che dichiara un’altezza di 11,98 metri, mentre quella reale, come andrebbe computata secondo il Regolamento Edilizio, è di 14,93. E per gli Uffici tutto questo va bene. Ma non per il Tar, che boccia con parole secche tali espedienti.

E per il sindaco? Caro Pacher, qui i metri abusivi, se si considera anche l'ulteriore limitazione dell'allegato 5, sono 5 (4,93 per l’esattezza): un’enormità. Legalizzati - si fa per dire - dagli Uffici: facciamo ancora finta di niente?

Scavando tra le carte ed informandosi, si trovano altre cose poco edificanti sulle commistioni tra progettisti ed Uffici. La linea di condotta generale è elaborare trucchetti come quello appena visto senza incorrere nel pericolo di denunce per falso. Per far questo il progettista scafato produce fascicoli di progetto con documentazione equivoca, incerta, lacunosa, in maniera tale da rendere i controlli esterni (cioè del cittadino) molto difficili se non impossibili e al contempo approntare una linea di difesa, in caso di contestazioni, riparandosi dietro la indeterminazione degli elaborati. Della serie: “l’altezza è sbagliata? Ma partendo da dove?” “Mancano le quote? Ah, ci siamo dimenticati di metterle!”

Questo non dovrebbe essere possibile: i regolamenti edilizi sono molto precisi nello stabilire le informazioni che un progetto deve contenere: ma a Palazzo Thun (nei due casi su due arrivati al Tar) gli Uffici non si accorgono che i progetti redatti da prestigiosi studi di architetti mancano di dati essenziali.

Raccontiamo qui l’illuminante episodio accaduto ai cittadini di via alla Val che hanno contestato uno di questi progetti. I cittadini si rendono conto della lacunosità del progetto proprio per quanto riguarda le quote del terreno, e quindi l’altezza che potrà raggiungere il nuovo edificio: in particolare scoprono che la planimetria di progetto, contrariamente a quanto dice la logica e il Regolamento Edilizio, non contiene alcuna quota. Come si può vedere nella figura a fianco, il primo disegno (parte integrante del fascicolo progettuale, redatto da un noto studio di architettura di Trento, e approvato dagli uffici comunali) non indica alcuna altezza del terreno, anzi non c’è alcun numero (per esigenze di spazio riportiamo solo una parte del disegno, ma la cosa è uguale anche nelle altre). Che valore ha un elaborato del genere? Evidentemente zero. Ne' altre planimetrie quotate sono rinvenibili nell'intero fascicolo di progetto.

Uno dei cittadini chiede udienza al sindaco per spiegargli l’inghippo. Pacher chiama il dirigente responsabile, arch. Paolo Penasa che s’impegna a far verificare ad uno dei suoi tecnici la congruità della planimetria di progetto in rapporto al terreno originario. Così, alcuni giorni dopo, sul terreno si trova il tecnico comunale Saltori, un rappresentante dell’impresa e uno dei cittadini, per effettuare la verifica. Un paio di giorni dopo il cittadino va in Comune e chiede al geom. Saltori il suo responso:

“Tutto a posto, ci sono discordanze irrilevanti, massimo di un paio di centimetri”.

“Ma come? Quali discordanze irrilevanti? Nel progetto non ci sono quote!”

“Certo che ci sono! E sono corrette”.

“Ma scusi: quale disegno progettuale ha verificato?”

A questo punto il geom. Saltori estrae il rilievo di cui riportiamo una porzione a fianco, scrupolosamente redatto dal geom. Degasperi. Come si vede, a differenza dell’altro, è - correttamente - pieno di quote e indicazioni numeriche: “Questo mi ha dato l’arch. Penasa da verificare”.

Sorgono varie domande. Da dov’è saltato fuori il rilievo Degasperi redatto correttamente? Come mai l’arch. Penasa, consegna per la verifica tecnica un rilievo diverso da quello a suo tempo presentatogli e da lui approvato? Non è che implicitamente afferma che il progetto vero, quello originale, è impresentabile? E allora, perché lo ha approvato e su di esso ha rilasciato concessione edilizia?

La cosa non finisce qui. Si arriva al Tar. E il Tribunale ordina anch’esso una perizia.

E qui accade una cosa strana: nelle controdeduzioni il progettista non confronta i risultati del perito con il proprio progetto, ma con il rilievo di Degasperi; e il Comune si limita ad affermare di non aver trovato incongruità, ma senza specficare rispetto a cosa; mentre i cittadini confrontano la perizia con il progetto su cui è stata rilasciata la concessione, ponendone in risalto le eclatanti manchevolezze. Il Tar dà loro ragione.